L’urgenza di una nuova amicizia tra fede e ragione secondo Newman e Benedetto XVI

postato in: Temi diversi | 0

Professore Fortunato Morrone

1. La passione per la verità che ha segnato e segnerà l’esistenza di grandi uomini e donne per i cristiani scaturisce dall’aver incontrato e fatto esperienza della verità incarnata, il Logos incarnato del Padre, Gesù. «La passione per la verità – ha ricordato Benedetto XVI qualche giorno fa – ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell’uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva. Una Parola di rivelazione che diventa vita e che chiede di essere accolta come sorgente inesauribile di verità»[1]. Queste parole delineano a grandi, ma significative tratti l’esemplare esistenza credente di J. H. Newman e ci offre così come l’incipit per entrare nel tema che ci è stato assegnato, attingendo dall’ormai famoso discorso accademico di Benedetto XVI svolto nell’università di Regensburg (12.09.2006).

Il Santo Padre a conclusione del suo intervento nel quale aveva mosso, se pur a ampie linee, una lucida critica, alla “ragione moderna” a partire “dal suo interno”, dopo aver riconosciuto “le grandiose possibilità” che l’illuminismo “ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano”, aveva precisato che la sua presa di posizione non intendeva essere una semplice “critica negativa” quanto piuttosto una provocazione per : « un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza».

Appellando ad visione più ampia del concetto di razionalità, mortificato dalla tradizione illuministica ed empirista, Benedetto XVI intende guadagnare quello spazio specificamente etico quale presupposto ineludibile per salvaguardare l’uomo, l’umano dell’uomo, dall’arroganza della stessa ragione che ubriacata dalle nuove e sempre più raffinate tecniche di dominio sulla creazione «non accetta più limiti»[2]. Custodire l’uomo difendendolo dalla sua stessa ragione, quasi impazzita lungo la strada, è in fondo una contraddizione ma non è una novità per il cristianesimo: non ci riferiamo semplicemente all’evidente negazione di Dio praticata consapevolmente dagli umani fin dalle origini e denunciata dai profeti in termini di idolatria e irreligione, ma all’uso distorto della ragione esercitata dagli stessi credenti e irretita in schemi concettuali filosofici che presumono di incapsulare la rivelazione di Dio compiuta in Gesù. Esemplare in tal senso è l’eresia ariana.

L’invito del papa, inoltre, rispetto ad un passato in cui quanto meno si professava culturalmente una ragione forte, si situa in un contesto filosofico segnato da una generale perdita di fiducia nei confronti di una ragione incapace di accedere alla verità, tipica della cosiddetta postmodernità che pare portare a compimento l’opera del nichilismo, espressione del neo paganesimo contemporaneo segnato dal relativismo veritativo ed etico con conseguenze nefaste sul piano culturale, sociale, politico ed economico della comune esistenza umana. Pensiamo soltanto al possibile e deleterio scontro tra culture e religioni diverse[3]. L’invito del papa a pensare la ragione in più ampio spettro di possibilità rispetto a come l’immaginava l’illuminismo ridotta ad un esercizio di induzione o deduzione, si declina in un’apertura alla vita stessa nella sua complessità e molteplicità, in quella ricchezza del reale che si riflette nel pensare tipicamente umano. In tal senso il papa spinge verso una visione molto più concreta di quella che gli empiristi stessi erano in grado di afferrare.

In verità l’esigenza di allargare la visione della ragione è una richiesta maturata nel secolo scorso dopo le conseguenze negative derivanti da un parziale e unilaterale uso del pensare umano dominato dalla tecnica. La ragione moderna figlia dell’illuminismo e dell’empirismo ha in verità raggiunto traguardi notevoli nel campo della scienza, relegando la fede nell’ambito privato e sentimentale dell’agire umano, ha impoverito il concetto di razionalità appiattendolo sull’immanente della storia offrendolo e sacrificandolo ad uno scientismo, ad una tecnocrazia e ad un economicismo, che ha contribuito al generale degrado di civiltà.

Papa Ratzinger in questi anni del suo pontificato, in coerente continuità con il magistero di Giovanni Paolo II espresso nella Fides et Ratio (decennale), sta offrendo all’intelligenza dei credenti e non notevoli provocazioni di alto profilo teoretico per mostrare che un corretto uso della ragione non può che giovare al cammino dei popoli che abitano il villaggio globale e tra i quali la Chiesa è in prima fila per custodirne la loro coesistenza pacifica. Ora il contributo che la fede può offrire all’approfondimento della razionalità nelle sue varie forme ma soprattutto nella sua dignità metafisica ed etica è stato il tema di fondo della Fides et Ratio che, nella continuità con la grande tradizione teologica cattolica, ha procurato nuove sollecitazioni per un nuovo esercizio della ragione all’interno di ogni ambito dell’esistenza umana, dalla religione alla bioetica, dalle scienze naturali alla politica. Se la ragionevolezza della fede come atto dell’uomo può contribuire «al ripensamento generale delle forme contemporanee della razionalità»[4], l’approccio alla ragione umana vista nella sua complessità raggiunge il suo potenziale solo nel senso religioso.

In questa via, Benedetto XVI, proprio contro quel sospetto tipico della modernità che giudica la fede dannosa per la razionalità, ammonisce che, in nome della legittima autonomia della ragione, è un contro senso pretendere di escludere Dio dall’orizzonte di senso proprio degli umani. Perciò: «Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l’uomo di suoi specifici criteri di misura. D’altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione »[5]. In questa sinergia tra fede e ragione che permette un vero e promettente dialogo tra le religioni, il pontefice, mettendo in atto l’assunto della Fides et ratio, quasi a ricordare che esiste un controllo critico della ragione nei confronti della fede cristiana e della religione in generale, annota che «la ragione secolarizzata non è in grado di entrare in un vero dialogo con le religioni. Se resta chiusa di fronte alla questione di Dio, questo finirà per condurre allo scontro delle culture». Il rapporto cruciale tra fede e ragione non è dunque una questione strettamente accademica , ma ha una rilevanza pratica, cristianamente spirituale poiché investe il destino dell’uomo e al sua vicenda su questa terra. Ricorda con chiarezza sua propria Benedetto XVI: « La nostra conoscenza aumenta, ma al contempo si registra un progressivo accecamento della ragione circa i propri fondamenti; circa i criteri che le danno orientamento e senso. La fede in quel Dio che è in persona la Ragione creatrice dell’universo deve essere accolta dalla scienza in modo nuovo come sfida e chance. Reciprocamente, questa fede deve riconoscere nuovamente la sua intrinseca vastità e la sua propria ragionevolezza. La ragione ha bisogno del Logos che sta all’inizio ed è la nostra luce; la fede, per parte sua, ha bisogno del colloquio con la ragione moderna, per rendersi conto della propria grandezza e corrispondere alle proprie responsabilità »[6].

Riecheggiano i temi della Fides et Ratio nella quale precisamente si invita ad un approccio globale alla ragione che non può essere estranea alla dinamica dell’assenso che la fede richiede, anzi esige. Il pregiudizio moderno dichiara il sapere della ragione totalmente altro rispetto al sapere della ragione, anzi la fede può risultare sostanzialmente deleteria per la ragione: da qui ogni sinergia tra l’una e l’altra è impraticabile.

2. Di fronte a questo diktat dogmatico che investe sia i credenti (fideismo) sia i non credenti (razionalismo) si è trovato anche Newman, il quale, sull’onda europea del razionalismo introdotto da Cartesio e Spinosa, respirava un clima culturale dominato dall’affermazione di Hume nel classico Saggio sui miracoli «La nostra santissima religione è fondata sulla fede, non sulla ragione» per cui l’assenso prestato dalla persona alla fede «sconvolge tutti i principi della sua intelligenza e lo spinge a decidere di credere a ciò che è sommamente contrario alla consuetudine e all’esperienza»[7]. In sostanza si accetta per fede ciò che non è credibile razionalmente poiché essa è fondata su una credenza accolta sulla base di un’autorità esterna. In questa via la fede è rinchiusa nello strettissimo ambito soggettivo sentimentale per cui se è possibile ammettere l’esistenza di Dio, come puntualizzerà Kant allargando il quadro rigido di Hume con la distinzione tra ragione speculativa e ragione pratica, questo può accedere solo all’interno di quella soggettiva certezza morale fondata sui propri sentimenti che spingono l’uomo nella pratica della sua esperienza ad osservare la legge morale che non avrebbe forza in sé se non esistesse Dio. Da qui l’esistenza di Dio è affermazione soggettivamente certa, ma oggettivamente insufficiente.

Il fondamento della fede trova così il suo luogo adeguato nella coscienza soggettiva. Si comprende che il solco tra fede e ragione, verità e libertà, creatura e Creatore, a questo punto è profondo e si apre sempre più la strada verso un soggettivismo esasperato dei nostri tempi che non risparmia la stessa fede, anzi come tarlo la divora dall’interno operando quella frattura devastante tra la sincera ed entusiastica e apodittica confessione di fede e le concrete scelte quotidiane dove chi detta legge è una soggettività autoriferita, sia singola sia collettiva, denominata opinione pubblica o maggioranza democratica. Si concede che fede e ragione possono, secondo il principio della tolleranza, coesistere ma ciascuna ha il campo di azione senza alcuna possibilità di interferenza: chi crede è rispettato per il suo coraggio, ma fa un salto nel buio. E questa pacifica logica della ragione illuminata e illuminante è tutto sommato accolta da non pochi credenti, oggi come ieri, con ricadute ecclesiali e morali che investono la concreta esistenza dei singoli e dei popoli.

Certo abbiamo semplificato, ma la sostanza è questa e lo si evince da come l’opinione pubblica e gli stessi cattolici reagiscono alla chiarezza del magistero di Benedetto XVI e alle stringenti conseguenze morali derivanti da quella fede che non si appella estrinsecamente alla ragione e di conseguenza a quella razionalità espressa nei vari campi della conoscenza umana, non ultima delle scienze naturali ed esatte.

In realtà la dicotomia tra fede e ragione è antica tentazione che ha attraversato la millenaria vicenda della Chiesa, generando non pochi sbandamenti e peccati nei figli della medesima Chiesa di cui Giovanni Paolo II ha pubblicamente chiesto perdono nell’anno del Giubileo. In forza del principio di Incarnazione, così caro a Newman, una ragione che si sottrae alla luce della fede, nei credenti, è mortificata nelle sue stesse potenzialità, chiudendosi ad orizzonti cognitivi del reale inaspettati, mentre una fede senza ragione è semplicemente surrettizia, non cristiana, non degna della creatura umana, capax Dei, come ha insegnato la grande tradizione patristica e la teologia scolastica, ultimamente la fenomenologia e il personalismo cristiano.

Il grande sforzo della predicazione evangelica della Chiesa è stato in fondo quello di mostrare e dimostrare che il Logos creatore, incarnato, crocifisso e risorto è la vera luce che precede, illumina e accompagna il cammino dell’uomo perché questi pervenga a se stesso nella totalità del suo essere e nella pienezza della sua felicità. Dio in Gesù non può essere l’antagonista della persona umana: questo è precisamente il sospetto velenoso inoculato dall’antico serpente all’Adam di ogni tempo. Ma qui parliamo precisamente di chi «è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44). E quando si lascia spazio al suo veleno, la verità che brilla sul volto del Crocifisso risorto, speranza dell’uomo, è pervertita fino al punto di pensare che uccidere è sinonimo di rendere culto a Dio. è la perversione della fede scissa completamente dal ben dell’intelletto (Dante), opera in tal senso del diabolon, di chi vuole a tutti i costi vuole separare ciò che Dio ha unito una volta per sempre in Cristo Gesù. Questa dicotomia tra fede e ragione è stata e può continuare ad essere una delle cause delle guerre di religione e della continua tentazione di fondamentalismo derivante dalla perdita di ragionevolezza nell’esercizio della fede. A Regensburg il papa fa sue le parole dell’imperatore Manuele II Paleologo: «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio» per cui « La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima».

Ma questa è l’altra faccia di una ragione che in nome della sua legittima autonomia vuole eliminare Dio dall’orizzonte del senso umano, poiché anche in questo caso emerge il sospetto diabolico che guarda alla fede come ad una minaccia mortale e alienante per lo sviluppo della razionalità che oggi si esprime in modo particolare nelle scienze e nella conseguente tecnologia. Si tratta in realtà di un sospetto che nasce con la modernità con quel legittimo guadagno culturale della soggettività umana. È sospetto che Newman registra come incipit del suo primo sermone universitario, che ha come titolo programmatico: il Vangelo come fonte dello spirito filosofico (2 luglio del 1823): «Una delle accuse più frequentemente rivolte alla religione rivelata da parte dei non credenti è stata la sua pretesa ostilità nei confronti del progresso scientifico e filosofico»[8].

3. In sostanza, con le parole che Newman volentieri prenderebbe dal Cardinale Ratzinger nella sua lectio magistralis a Subiaco, che cosa mai deve temere la scienza dal momento che: «Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione – e continua – In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana – É stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. …. (Perciò) Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti (…) a vivere una fede che proviene dal logos, dalla ragione creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale»[9].

In questo come in altri interventi (cfr Biblioteca del Senato 13.05.2004) Ratzinger dunque mostrava come riaffermare le radici cristiane dell’Europa va nella direzione di un recupero delle radici umane della ragione moderna contro ogni degenerazione culturale che ha umiliato e sfigurato ieri come oggi la dignità delle persone create nel Logos del Padre. La salvaguardia della ratio (così come lucidamente è indicato nella FeR) è compito precipuo della fede cristiana poiché si tratta di salvaguardare l’uomo imago Dei, fondamento rivelato del suo essere guardato come fine e mai e in nessun caso mezzo-strumento, come può capitare quando la razionalità è rigidamente e unilateralmente inquadrata in canoni scientifici.

L’eticità dell’agire umano così non può prescindere da una razionalità che illuminata dalla fede non restringe il suo orizzonte ma al contrario lo dilata aprendola a possibilità inaspettate a vantaggio di una nuova e più proficua convivenza tra i popoli. In verità aver voluto fare a meno di Dio in forza di un presunto autosufficiente lume della ragione ha portato non poche catastrofi nella storia dell’umanità.

L’urgenza, allora, di stringere una nuova e più feconda amicizia tra fede e ragione è un riscoprire per i credenti l’atto creativo del Padre nel suo Verbo incarnato che conduce all’unificazione dell’umano in tutte la sue componenti ed espressioni. Per i non credenti si tratta di accogliere la ragionevolezza della fede come amica della medesima razionalità che in forza del Logos creatore abita per il suo Spirito l’esistenza di ogni uomo e di ogni donna. Dio, infatti, ricorda il Santo Padre nel suo recente viaggio in Francia «Mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione! Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede! L’unico Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo – ha creato la nostra ragione e ci dona la fede, proponendo alla nostra libertà di riceverla come un dono prezioso. È il culto degli idoli che distoglie l’uomo da questa prospettiva, e la ragione stessa può forgiarsi degli idoli »[10].

Da qui l’appello e la provocazione del Cardinale Ratzinger rivolta ai non credenti a Subiaco: «Dovremmo, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita [… ]come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno» . E rivolgendosi ai credenti aggiunge: «Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».

Non possiamo non avvertire qui l’eco della Fides et Ratio nella quale Giovanni Paolo II indicando l’esemplare magistero di alcuni maestri che hanno saputo coniugare in un rapporto fecondissimo fede e ragione nella ricerca della verità, segnalava, accanto ad altri, la figura di J. H. Newman.

4. Indipendentemente dal posto che il Cardinale inglese ha occupato nella riflessione teologica del Santo Padre, credo che la profonda conoscenza di sant’Agostino gli ha procurato una simpatia e un’attenzione particolare per Newman. Le Confessioni del Padre della Chiesa con la descrizione delle dinamiche interiori spirituali e intellettuali trovano un’eco forte e originale nell’Apologia pro vita sua (di Newman) e l’attenzione che quest’ultimo ha rivolto al soggetto credente (pensiamo alla Grammatica dell’assenso e al tema della coscienza posta di fronte alla verità) hanno un riscontro e una lezione insuperabile in sant’Agostino. Entrambi sono stati come costretti dalla grazia a porre sotto la luce della Verità il loro cammino interiore obbedendo unicamente in un’incessante e feconda ricerca del Dio vivo e vero, allo splendore della verità, Cristo Gesù, fondamento e garanzia dell’inviolabile soggettività della persona umana.

D’altra parte le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9), segnalate dal Santo Padre in una recente catechesi, che enunciano il fecondo rapporto tra fede e ragione: crede ut intelligas (“credi per comprendere”) intellige ut credas (“comprendi per credere”), sono sostanzialmente di casa nella riflessione newmaniana. Egli stesso ricorda che «I Padri mi fecero cattolico»[11] e sarà proprio il magistero di sant’Agostino sulla cattolicità ed apostolicità della Chiesa, espresso sinteticamente nell’assioma “Securus judicat orbem terrarum” (ovvero, nella traduzione dello stesso Newman: «La Chiesa universale, nei suoi giudizi, è sicura della verità»[12]) a indirizzare decisamente Newman, con tanta sofferenza ma con un atto di grande libertà e onestà intellettuale, verso la Chiesa di Roma.

In verità le questioni che nascono dalla relazione fede e ragione o dalla negazione di essa nel recente magistero di Benedetto XVI appena da noi segnalate, hanno interessato direttamente e indirettamente tutta l’esistenza credente e la riflessione teologica di Newman.

Il già citato primo sermone universitario ci avverte che da subito il giovane e brillante oxfordiano si era immesso nell’agone della controversia che alcuni intellettuali razionalisti (Noetici) avevano provocato nell’ambiente universitario ed ecclesiale di Oxford, affascinando con il loro eloquio non poche giovani menti e, per un breve periodo, lo stesso Newman.

Se nell’attuale contesto di post-cristianesimo in cui all’esaltazione di una certa ragione scientifica si accompagna il rifiuto postmoderno di una razionalità del reale, Benedetto XVI con il suo magistero sta spingendo la riflessione critica della teologia verso una nuova razionalità, verso un allargamento della categoria stessa di ragione, non da meno Newman, nel periodo vittoriano segnato da una parte dal razionalismo teologico di stampo empirista e dall’altra dall’evangelicalismo entusiastico e sentimentalista, si è impegnato nella ricerca di una razionalità della fede per rendere credibile l’annuncio del Vangelo. L’impegno di Newman come di Benedetto XVI vanno così nella direzione di difendere la struttura dialogica dell’uomo aperta alla verità e dunque all’universalità dei valori etici e religiosi.

La proposta teologica di Newman riflette il cammino di un uomo di fede aperto sistematicamente alla verità e perciò sempre disposto a mettere in discussione le sue sincere posizioni religiose e intellettuali. La sua singolare vicenda personale gli ha offerto la grazia di ripensare a fondo l’atto di fede anche dopo il sicuro approdo nella Chiesa cattolica. Rispetto alla tradizione della Scolastica, il suo originale approccio alla problematica del rapporto fede e ragione si è svolto secondo una metodologia esistenziale influenzata sia dalla tradizione filosofica inglese sia da quella prima educazione evangelical in cui l’accento è posto sul cuore

Il suo motto cardinalizio cor ad cor loquitur è un’evidente segnale di rimando.

L’evoluzione del suo pensiero sull’aspetto cognitivo della fede si può seguire nei suoi Quindici sermoni predicati all’Università di Oxford tra il 1826 e il 1843, due anni prima di entrare nella Chiesa cattolica, ma trova la sua maturità nella Grammatica dell’assenso (1879) in cui Newman si impegna a illustrare la fede come vero e proprio assenso personale pur includendo il suo contenuto intellettuale.

Newman pertanto, pur assumendo la categoria di fede letta come assenso intellettuale, concentrerà la sua attenzione sulle dinamiche personali, sulle disposizioni interiori che investono l’atto di fede come assunzione soggettiva e personale dell’oggettiva confessione di fede garantita dalla Chiesa. In un contesto culturale in cui emergeva sempre più la consapevolezza della soggettività della persona, Newman si impegna a declinare il rapporto fede e ragione ponendo al centro il soggetto credente.

In tal senso egli ha lavorato sulla natura propria dell’assenso argomentando i presupposti della fede stessa a partire dalla persona e nello stesso tempo approfondendo e illustrando il contenuto oggettivo della fede all’interno della tradizione vivente della Chiesa e, dunque, del suo possibile sviluppo ulteriore provocato anche dal contesto culturale del tempo che pone domande sempre nuove alla fede e richiedono nuove e argomentate risposte rispetto alle antiche ragioni offerte dai Padri o dalla Scolastica.

In sostanza, il cammino della Chiesa nella comprensione della verità data una volta per tutte in Gesù è segnata dalla sua stessa storicità, sancita dal mistero dell’Incarnazione. Certo, ricorda Newman, vicino alla fonte il ruscello appare più limpido, ma non sarà mai fiume, ampio e profondo, se non attraversa la terra con tutti i rischi di ‘inquinamento’. E così l’idea di cristianesimo: «Talvolta penetra in territorio straniero e delle controversie vengono ad alterare il suo corso; (…) A secondo delle nuove relazioni che essa si trova ad avere, sorgono pericoli e speranze e principi antichi riappaiono sotto forma nuova: Essa muta insieme a loro per restare sempre identica a se stessa. In un mondo soprannaturale le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è mutarsi e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni»[13]

Una tale affermazione potrebbe essere letta in chiave di evoluzionismo culturale, così come è successo al modernismo che si è appropriato indebitamente del pensiero newmaniano [«il modernismo non battè sentieri diversi da quelli aperti e teorizzati da Newman»][14], in realtà è la tematizzazione dell’escatologicità della vicenda umana nei confronti della Verità e, dunque, segna il dinamismo proprio della fede storica del credente nei confronti dell’Assoluto. La ricerca della Verità sollecita l’uomo a conversioni continue anche quando l’ha trovata nel porto sospirato della Chiesa cattolica come nel caso di Newman. Egli è testimone di questa fatica ma anche della Grazia che non abbandona l’uomo nel suo sincero itinerario verso l’Eterno. In questo, Newman, contro ogni scetticismo, razionalismo o\e fideismo o ultramontanismo, è testimone della possibilità di sperimentare la Verità nel volto storico della Chiesa, di conoscerla pur nei limiti inevitabilmente creaturali della condizione umana, di esserne oggettivamente certo per sé e per altri nella luce di quella fede, che con il suo stesso contenuto dogmatico, è a misura dell’uomo creato a immagine di Dio. Scrive il teologo Ratzinger nella sua opera Introduzione al cristianesimo mentre riflette sulla configurazione ecclesiale della fede che «non è una recita di dottrine, né un’accettazione di teorie concernenti cose di cui non si conosce nulla (…), È invece un movimento dell’intera esistenza umana … che comporta una “conversione di rotta” di tutto l’uomo, una svolta che da quel momento in poi modella stabilmente l’intera esistenza»[15].

Tuttavia Newman nel concepire gradualmente una grammatica dell’assenso di fede, predisponendo un’analisi che dalla dinamica naturale del conoscere passa a quella più elevata della conoscenza religiosa, non elabora una filosofia di tipo psicologistico o soggettivistico. La sua non è soltanto analisi del linguaggio della coscienza slegata dall’approfondimento metafisico della sua referenza. La coscienza e le sue regole sono originariamente aperte all’orizzonte della verità nel senso che essa media l’essere dell’uomo in relazione alla Verità sempre eccedente alla presa della coscienza. Ma per non cadere nella trappola dell’autoreferenzialità che inquinerebbe inevitabilmente l’assenso della fede, riducendolo ad atto esclusivamente razionale o ad estenuarlo in un soggettivismo emotivo che rifiuta una razionalità intrinseca alla fede, la coscienza è chiamata a continua conversione nei confronti della verità. La riduzione dell’esperienza credente a pura razionalità o ad estetismo religioso, ieri come oggi, conduce inesorabilmente nei vari campi della conoscenza e delle relazioni umane ad esemplificare, per esempio, il dialogo tra le culture o le religioni in un tollerante disimpegno o indifferenza etica. Nell’uno o nell’altro caso il rapporto fede e ragione risulta comunque viziato dal sottrarsi al grembo ecclesiale entro cui il singolo credente è chiamato a vivere il suo assenso di fede.

5. A proposito di questa via percorsa dal Cardinale Newman, il 28 aprile 1990 in occasione del centenario della sua morte, l’allora Card. Ratzinger ricordando gli inizi (1946) del suo studio della teologia nel seminario della Diocesi di Frisinga, ebbe a dire: « La dottrina di Newman sulla coscienza divenne allora per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti col suo fascino. (…) era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza. Tuttavia proprio perché Newman spiegava l’esistenza dell’uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l’anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all’individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all’arbitrarietà – anzi che si trattava proprio del contrario» (Il Sabato).

Tutto questo non è estraneo alla difesa che Newman ha predisposto, in tutta la sua vita e con tutte le sue energie contro la sfida del razionalismo, per salvaguardare la sensatezza dell’atto di fede, anzi dell’atto del credente, sia del letterato che dell’analfabeta. Egli stesso, infatti, deve offrire ragioni della sua vicenda di convertito a chi dubita della sua buona fede. Fin dai primi Sermoni Universitari, di fatto, Newman aveva lumeggiato la condizione del credere come insita nella stessa natura razionale dell’uomo. Ora per cogliere il senso della rivelazione e la pro-vocazione che essa offre alla ragione, Newman è convinto che bisogna considerare il cristianesimo come evento, una realtà storica che, nella sua dinamica fattuale, si dis-piega necessariamente in dottrina chiarificante l’esperienza di fede, come sviluppo coerente ed organico dell’unica Parola detta una volta per sempre in Cristo e continuata nella vita della Sua Chiesa. Newman riconosce che il problema del rapporto tra la fede e la sua esplicitazione ortodossa ed ecclesiale si risolve nel riconoscere alla natura della fede cristiana una sua dimensione dinamica. Il linguaggio religioso umano è sempre al di sotto della Rivelazione eppure in esso deve “dirsi”, cosicché la verità rivelata, consegnata una volta per tutte nelle Sacre Scritture deve essere continuamente esplicitata nel cammino storico della Chiesa.

Dalla terminologia utilizzata nei Sermoni Universitari e nella Grammatica è evidente, tuttavia, il debito contratto da Newman nei confronti delle analisi fenomenologiche tipiche dell’empirismo inglese. Tuttavia, come avevano già fatto i Padri con la filosofia greca, egli ne adopera la strumentazione concettuale, senza rimanere impigliato nelle trame delle conclusioni scettiche. Se l’analisi della conoscenza parte inevitabilmente dall’esperienza, essa approda ad una visione che è capace di interpretare il reale con una ragionevolezza, propria dello spirito umano, più ampia ed estesa del termine “ragione” attribuito dall’illuminismo o dall’empirismo. La ragione va colta nella concretezza dell’esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche. Questa preziosa facoltà umana possiede una sua dinamica che tende inevitabilmente alla verità «è fatta per la verità e trova base nella verità … la può raggiungere e una volta raggiunta la può tenere; la può conoscere e le può conservare il suo riconoscimento». Ora questa tensione è incomprensibile al di fuori dell’atto creativo di Dio il quale costituendo l’uomo come spirito incarnato, lo rende capace del suo Creatore. Perciò la complessità dell’uomo non può essere ridotta alla capacità di raccogliere dati sensibili e di catalogarli secondo lo schema razionalistico. A Locke Newman rimprovera che «gli stessi modi di ragionare e convincimenti che per me sono naturali e legittimi per lui sono irrazionali, emotivi, spuri ed immorali; e ciò, credo, perché egli si richiama ad un suo ideale di come la mente dovrebbe agire, anziché indagare la natura reale della mente umana» [16].

Da qui emerge quella filosofia della scienza che, pur riconoscendo una sua dignità alla religione, la relega nell’angolo del sentimento privato che non fa “fede” in termini di conoscenza certa. Se poi alla fede religiosa si concede un suo ragionamento questo è tollerato purché circoscritto nella sfera della coscienza del singolo, ma non fa testo in campo scientifico. A ben vedere l’ambito della ragione empirica è, tutto sommato, ristretto rispetto all’intera realtà che non è riducibile né mossa da questa “ragione”, ma da altre ragioni non meno reali. In fondo la stessa tradizione empirica ammette dei limiti alla ragione: è il buon senso dello “spirito filosofico” che con umiltà cerca di interpretare i fatti secondo la lezione avviata con Bacone. Nel rispetto di tali limiti si può giungere a risultati validi nel campo della conoscenza.

La difesa della fede non può pertanto prescindere dall’essere atto intellettuale dell’uomo che nella sua interezza si apre al mondo. Confortato dalla Scrittura e utilizzando da anglicano l’assioma cattolico gratia non destruit naturam, Newman ribadisce: «è chiaramente impossibile che la fede sia indipendente dalla ragione, che sia un nuovo modo di raggiungere la verità: il Vangelo non altera la costituzione della nostra natura, non fa che integrarla e perfezionarla; ogni conoscenza comincia con la vista e si completa con l’esercizio della ragione .. (tuttavia) la ragione non è necessariamente l’origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi»[17].

Ci troviamo, mi pare, all’origine della sfida vera lanciata dall’insegnamento di Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio: la reale possibilità della filosofia cristiana come vera filosofia non a prescindere dalla fede ma grazie ad essa. Poiché, ricorda Newman, «l’intelligenza è fatta per la verità»[18] le risorse della ragione umana orientata dalla fede, permette alla filosofia di essere se stessa, secondo le esigenze della circolarità tra fede e ragione ribadite dall’enciclica[19].

Il credente, posto di fronte al Dio di Gesù che si concede “economicamente – progressivamente”, si esprime in un’intelligenza di fede non statica, ma sempre aperta ad ulteriore intus-legere, proprio dello spirito umano. Da qui Newman arguisce che l’atto di fede è nell’ordine di quella certezza non fondata su conoscenze “scientifiche” chiare e distinte, ma su quell’accumulo e convergenza di probabilità – congetture proprio della conoscenza umana che investe la totalità della persona e che porta all’assenso libero e responsabile nei confronti delle verità di fede[20]. Avendo come principio ermeneutico l’Incarnazione, Newman argomenta che fede e ragione non sono dunque due atteggiamenti opposti dello spirito umano, cadremmo in una sorta di nestorianesimo antropologico, tanto meno possono confondersi, a guisa di un monofisismo antropologico: l’una e l’altra posizione conducono o al razionalismo o al fideismo. Pertanto senza confondere nell’uomo la sua forza critica da quella creativa, per Newman «la fede è un principio d’azione (…) mentre la ragione si basa sulla dimostrazione, la fede è sotto l’influsso delle aspettative, (essa) nasce nello spirito non tanto dai fatti quanto dalle probabilità» secondo la lezione dell’Analogy di Butler, uno dei maestri anglicani di Newman. La fede, dunque, come esercizio della ragione aiuta a ri-comprendere questa facoltà umana in un senso più ampio e complesso di quanto propone il razionalismo e l’empirismo che «vede la fede come un semplice atto morale, subordinato ad un previo processo di chiara e prudente ragione» [21]. In tal senso la fede non è pura e fredda razionalità quanto rapporto con l’Assoluto che richiede affidamento e in tal senso è principio soprannaturale.

6. In effetti l’approccio di Newman alla ragione umana vista nella sua complessità raggiunge il suo potenziale solo nel senso religioso. La ragione e tutto il pensiero umano, non solo il deduttivo o l’induttivo, ma tutto il pensiero umano mi offrono quella certezza di essere sicuro non solo della mia esistenza, ma anche delle relazioni affettive, ultimamente di Dio. D’altra parte tante certezze nella nostra vita non ci permetterebbero di vivere senza essere sicuri di tutte quelle cose che non possono essere dimostrate né logicamente né empiricamente né scientificamente.

In questa dinamica si formano le personali convinzioni che sono le ragioni implicite del vivere ma che nell’azione non sono così chiare rispetto ad una certa evidenza razionale. Eppure queste sostengono l’esistenza creando certezze. Si può allora ragionare senza dover “dimostrare” nel senso illuminista del termine. Avere ottime ragioni per credere non corrisponde necessariamente a mostrare tali ragioni. Per cui se un semplice credente non argomenta sufficientemente la sua fede questo non equivale a irrazionalità, le “probabilità” del suo credere possiedono ragioni sufficienti, anche se non esplicitate razionalmente. Alla verità, afferma Newman, si perviene ragionando, implicitamente o esplicitamente, sia nello stato di natura che in quello di grazia. Ma qual è la razionalità dell’assenso di fede? La fede stessa, come esercizio della ragione, ci rivela quelle possibilità che il razionalismo nega per svuotare la fede della sue stesse ragioni.

Come può, in sostanza, il semplice fedele essere certo della sua fede e agire responsabilmente? Da qui la domanda di fondo che attraversa l’interesse newmaniano sulla razionalità dell’assenso di fede si pone in questi termini: è possibile credere in qualcosa che non è possibile provare?[22]

Nel capitolo centrale della Grammatica che sintetizza la sua posizione scrive: «La certezza della conoscenza (…) è un esercizio normale a portata della nostra natura, e che in generale i miei simili riescono a compiere (…) in che modo poi si riesce ad essere certi, non è affar mio determinarlo (…) io mi vorrei limitare alla verità del concreto e alla certezza intellettuale di tale verità»[23]. In questa lettura dell’esperienza di fede, Newman propone il senso illativo[24] come capacità di “giudizio prudente”, o «retto giudizio del raziocinare»[25] che permette di passare dall’inferenza, strumento della logica, all’assenso assoluto. Il senso illativo come: «facoltà sintetica della persona»[26] permette di unificare i dati isolati probabili in vista di quella certezza, aperta alla verità, superiore all’argomentazione verbale o al processo rigido del razionalismo, perché è l’espressione dell’intera persona che nell’atto del ragionamento investe le altre sue proprie facoltà: la libertà e la volontà. Newman utilizza, tuttavia, tale capacità nell’ordine della conoscenza, senza sminuirne la portata etica [27].

Ma per non cadere nel soggettivismo, Newman ricorda che il senso illativo è controllato ultimamente dalla verità che non muta. In tal modo l’elemento morale risulta importante, poiché determina e condiziona quel processo logico che conduce alla fede oppure la nega. Ma risulterebbe vano se fosse scisso dalla ragione. Il riferimento alla coscienza non è perciò opzionale: come la mente ha bisogno della mediazione dei sensi per cogliere i fatti fisici, così l’intelletto per afferrare le ragioni della fede necessita della coscienza, la quale non è chiusa nel giudizio della propria mente, ma è aperta anche al suo contenuto morale oggettivo. In questa via Newman, pur non disdegnando l’argomento cosmologico, propone la coscienza quale la via privilegiata per riconoscere il proprio Creatore: God and myself.

Dopo tutto questo, seguendo il pensiero di Newman, bisogna affermare che la fede è sostanzialmente fede, grazia che attrae liberamente la mia volontà senza piegarla ma dispiegandola dall’interno, aprendola alla ragione ultima e fondante il senso della vita: la Carità divina che abita l’esistenza dei credenti e li salva umanizzandoli, impedendo che la persona umana, a cominciare dai suoi diritti fondamentali, sia calpestata. E solo il Deus caritas est ne è garante. È l’amore che salva. La coniugazione logos agape insistita da Benedetto XVI va al cuore dell’annuncio evangelico: Dio è Padre e si prende cura di ogni suo figlio, di ogni sua figlia, per cui la speranza dei credenti deve necessariamente esibire quelle ragioni che risuonano convincenti nel cuore e nella mente degli uomini perché loro dignità sia salvaguardata.

Per rendere di nuovo convincente il cristianesimo, ha ricordato il Santo Padre a Verona, è necessario ripercorrere la via «dell’unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo …. la medesima che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti». E cosi allargando gli spazi della nostra razionalità e riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene diventa possibile «coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze», nel legame che unisce fede e ragione, fede e libertà intimamente congiunte alla verità dell’amore

In sostanza il decidersi nella fede non è diverso dal decidersi razionalmente e in piena libertà, offre caso mai un orizzonte ben più ampio della sola ragione umana.

La fede, perciò, spinge la ragione ad osare di più, a guardare più in alto, contro ogni scetticismo di ieri e di oggi che mortifica la persona umana creata a immagine di Dio per un impegno etico che promuove tutto l’umano dell’uomo in ogni campo dell’esistenza quotidiana, dal sociale al politico, dalla cultura allo sport, dall’educazione all’economico, dal concepimento nel grembo di donna al compiersi dei giorni nel grembo pacificante e misericordioso del Padre di Gesù, unica nostra ragione e speranza di vita.

Pertanto, nell’allocuzione non pronunciata all’Università della Sapienza (17.01.08), Benedetto XVI, al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa ricorda che «è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro».


[1] Discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai partecipanti al Congresso internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, nel x anniversario dell’enciclica “Fides et Ratio” (16.10.2008) in vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2008/october/documents/

[2] Discorso alla Curia in occasione degli auguri natalizi 2006 (22.12.2006).

[3] Cfr. Spe Salvi, 16-23.

[4] A. Staglianò, Da Subiaco a Verona…, in Orientamenti Pastorali 2/2007, 30.

[5] Curia 2006.

[6] Ivi.

[7] Hume, Dei miracoli, X, Laterza, Bari 1968, 136-137.

[8] US 1, in J. H. Newman, Sermoni all’Università di Oxford, traduzione e introduzione di L. Chitarin, ESD, Bologna 2004, 419.

[9] L’Europa nella crisi delle culture, 1 aprile 2005,.

[10] Omelia del Santo Padre Benedetto XVI nella celebrazione eucaristica all’Esplanade des invalides, Parigi, sabato 13 settembre 2008

[11] J. H. Newman, Lettera al rev. Pusey su Maria e la vita cristiana, Città Nuova, Roma 1975, 106.

[12] J. H. Newman, Apologia pro vita sua, a cura di F. Morrone, Paoline, Milano 2001, 256,. La traduzione di Newman si trova in: Essay Critical and Historical, II, p. 101.

[13] DEV, 47.

[14] E. Bonaiuti, Newman modernista, cit …in G. Angelici – S- Macchi (edd.), Teologia del novecento, Glossa, Milano 2008, 68.

[15] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, 54.

[16] Grammatica dell’assenso, 99. Ne consegue che «per Locke la fede, fermo restando la certezza dell’esistenza di Dio colta per intuizione, resta nel campo dell’opinione (…) e risulta essere un assenso nozionale ad un Dio astratto, mentre al contrario per Newman la fede è sempre un assenso reale a un Dio personale» (L. Callegari, Newman. La fede e le sue ragioni, 127).

[17] Sermoni Universitari, a cura di Bosi, UTET, Torino 1988, 600.601.

[18] Grammatica, p. 135.

[19] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et Ratio, 73ss.

[20] Cfr. Grammatica,196-198.

[21] Sermoni Universitari, pp. 605.607. 618

[22]. w. ward, The Life of John Henry Cardinal Newman, London 1912, II., pp. 442-443.

[23] Grammatica, pp. 211.212.

[24] Cfr. capitolo IX della Grammatica, 211-237. Newman aveva già avviato la riflessione nel Sermone universitario XIII: Ragione implicita e ragione esplici

ta.

[25] Grammatica, p.2

10.

[26] l. obertello, Persona e conoscenza nel pensiero di John Henry Newman, Università degli studi di Trieste, Trieste 1964, 12

[27] Interessante è l’accostamento operato da Newman alla phronesis aristotelica dell’Etica: la phronesis è quella capacità personale di porre un giudizio etico in una singola situazione, sintetizzando e superando nello stesso tempo le regole generali del trattato morale. È una sorta di oracolo: «il quale è legge a se stesso, è il proprio maestro e giudice nei casi in cui gli si presenta la questione del dovere … è una capacità sufficiente alla circostanza, la capacità di decidere il da farsi ora e qui» (Grammatica, 219.)