Il bene più grande

postato in: Sermoni | 0

9 giugno 1839

Per nascita siamo in uno stato di insufficienza. Qual­cosa ci manca, necessario alla perfezione della nostra natura. Come il corpo non è completo in sé, ma ci vuole l’anima perché esso acquisti un significato, così anche l’anima, se Dio non le è vicino e non si manifesta in lei, manca nelle sue facoltà e nei suoi affetti di un principio regolatore, di un oggetto e di uno scopo.

Per nascita essa si trova proprio in queste condizioni, e la Sacra Scrittura ce ne parla servendosi di numerose similitudini. Alle volte chiama cieca la natura umana, alle volte affamata o nuda, mentre chiama luce, salute, cibo, tepore e vestito il dono dello Spirito: e tutto per suggerirci quale sia il nostro primitivo stato e quale debba essere la nostra gratitudine a Colui che ci ha condotto ad una nuova vita. Ecco qualche esempio: « Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. » (Apo. 3, 17 ss.). Oppure: « E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina » (2 Cor. 4, 6). Oppure ancora: « Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». (Gv. 4, 13-14). E nel libro dei Salmi leg­giamo: «si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie. » (Sal. 36, 9); e in Geremia: «Sazierò di delizie l’anima dei sacerdoti e il mio popolo abbonderà dei miei beni. » (Gr. 31, 14).

L’insegnamento contenuto nei passi citati lo si suole a buon diritto esprimere così: l’anima dell’uomo è fatta per la contemplazione del suo Creatore. Nessun’altra cosa può renderla felice e, per quanto essa sia ricca, non avrà pace se non giungerà alla presenza di Dio e non vivrà nella luce di lui.

La felicità dell’anima sta nell’esercizio dell’amore. Non nel piacere dei sensi, nell’attività, nelle emozioni, e nep­pure nella stima di sé, nella coscienza del proprio valore o nella sapienza, ma nella manifestazione dei suoi affetti, nel loro uso e nel loro dono. Come la fame e la sete, come i sapori, i suoni e i profumi sono la via attraverso cui il nostro essere corporeo riceve le sue soddisfazioni, così gli affetti sono le vie per cui giunge all’anima la sua gioia. Quando gli affetti sono rettamente usati, essa è felice; quan­do invece restano imperfetti, compressi, o peggio, vengono frustrati, l’anima non può esser felice. La nostra autentica, vera gioia consiste non nel sapere, non nell’aspirare o nel perseguire uno scopo, ma nell’amare, nello sperare, nel ral­legrarsi, nell’ammirare, nel venerare, nell’adorare.

Se realmente è così, abbiamo nello stesso tempo una ragione per dire che l’unione con Dio, e nulla meno, costi­tuisce la felicità dell’uomo. Benché infatti molti siano, oltre a Dio, i soggetti di conoscenza, i motivi di azione e le fonti di emozione, il nostro cuore esige qualcosa di più vasto e di più duraturo delle creature. Il nuovo e l’improvviso ecci­tano, ma non esercitano un influsso; ciò che è utile o piacevole non suscita venerazione; l’interesse personale non muove a riverenza, come il puro conoscere non eccita l’amore. Solo Chi ha creato il cuore umano può riempirlo.

Non voglio certo dire che nulla, all’infuori del Crea­tore onnipotente, possa fare appello e dare una risposta al nostro amore, alla nostra riverenza, alla nostra fiducia. An­che gli uomini sanno farlo. Senza dubbio anche l’uomo può risvegliare l’amore del suo prossimo e ripagarlo adeguata­mente. È un grande dovere, uno dei due doveri fondamen­tali della religione, amare i nostri fratelli. Ma qui non parlo di quello che possiamo fare o dovremmo fare: parlo di quello che occorre fare per avere la felicità? E si può dire con sicurezza che l’amore per il prossimo, per tutti gli uomini, quantunque costituisca un aspetto del nostro do­vere, tuttavia, esercitato da solo (dato e non concesso che sia possibile) non costituisce affatto per noi la ricompensa suprema. Difatti i nostri cuori esigono un oggetto di amore più duraturo e immutabile dell’uomo. In certi periodi l’ami­cizia vicendevole è assai utile: è un ristoro, come l’aria pura per chi sta soffocando, come il cibo o la bevanda per chi ha fame, o lo sfogo del pianto per uno spirito oppresso. È un tranquillizzante conforto avere qualcuno a cui confi­darci, a cui confessare le nostre colpe, a cui chiedere uno sguardo di simpatia. L’amore alla casa e alla famiglia, in questo ed in altri modi, basta a rendere sopportabile la vita a un gran numero di persone, per le quali altrimenti essa non lo sarebbe affatto. Eppure, anche dopo tutto questo, il nostro bisogno di amare non è accontentato e chiede un oggetto più incrollabile ancora. Non muoiono forse gli uomini? Non ci vengono forse tolti? Non sono forse caduchi come l’erba del campo? Il nostro cuore non lo diamo agli esseri irragionevoli, perché essi non durano. Non è nel sole, nella luna o nelle stelle che poniamo i nostri affetti, e nep­pure in questa terra bella e ricca, perché tutte le cose ma­teriali si dissolvono nel nulla e scompaiono come il giorno e la notte. Anche l’uomo, benché intelligente, è vanità, pur negli anni migliori della sua vita. Se la felicità deve consi­stere nella ricompensa del nostro affetto, « l’uomo generato di donna» (Gb. 14, 1) non può darcela; come può infatti egli, « che mai non resta in uno stesso stato » (Gb. 14, .2), essere d’appoggio ai suoi simili?

Ma esiste un’altra ragione per dire che Dio solo è la felicità dell’anima, e vorrei che ad essa rivolgessimo l’atten­zione. Contemplare lui, questo può schiudere e sollevare lo spirito, liberare, colmare e polarizzare il nostro cuore. È certo possibile amare le cose create con grande intensità, ma un tale amore, disgiunto da quello del Creatore, è para­gonabile ad un torrente impetuoso, veemente e torbido, for­zato a correre in un letto troppo angusto. Il cuore, potrem­mo dire, viene in tal caso spinto a passare per un’unica porta: e ciò non gli assicura certo lo spiegamento di tutte le sue possibilità. Le creature non possono rivelarci né met­tere in luce i mille aspetti del nostro spirito, attraverso i quali realmente viviamo. Nessuno, se non il Creatore può entrare nel nostro intimo, perché a nessuno, tranne che a lui, i pensieri e i sentimenti possono essere del tutto svelati e sottomessi. « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.» (Apo. 3, 20); «Dio è più grande del nostro cuore e conosce tutte le cose » ( 1 Gv. 3, 20). Questo sentimento di semplice e assoluta confi­denza ed unione pacifica e soddisfa coloro ai quali è con­cesso. Sappiamo che anche l’amico più caro penetra in noi solo in parte e solo di tempo in tempo mantiene rapporti con noi, mentre la percezione di una presenza perfetta e continua potrebbe appagare il nostro cuore per sempre. Togliamogli la creatura a cui si appoggia e ricadrà nel suo stato di solitudine e di oppressione: il cuore soffre e si tor­menta nella misura in cui è legato a determinati affetti o vicissitudini. Se non fosse troppo audace, potremmo dire -che solo l’Infinito può esserne la misura. Dio solo è capace di dare una risposta al misterioso complesso di sentimenti e di pensieri che in noi si celano : « Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.» (Eb. 4, 13).

La tranquillità della coscienza è appunto la consapevo­lezza abituale che il nostro cuore è aperto a Dio, è il desi­derio di una tale apertura, la confidenza in Dio scaturita dalla sensazione che nulla vi è in noi di cui dobbiamo ver­gognarci o temere. Purtroppo, si dirà, nessun uomo sulla terra si trova in un simile stato : tutti siamo peccatori, sem­pre. È vero. Non è possibile sostenere lo sguardo infinita­mente penetrante di Dio, né venire in diretto contatto (se così posso esprimermi) con la sua presenza, senza un inter­mediario tra lui e noi. Ma a parte il fatto che si danno vari gradi di confidenza, sia pure imperfetta, Iddio, nella sua grande misericordia, lo sappiamo, ha rivelato che un mediatore tra lui e l’anima colpevole esiste. I meriti di Cristo in modo meraviglioso si interpongono tra i nostri peccati e il giudizio divino, e il pensiero di questi meriti può rendere capace il cristiano, nonostante il peccato, di elevare il suo cuore a Dio. Se l’uomo sa di vivere in Cristo (per usare il linguaggio della Scrittura) o, in altre parole, si rivolge a Dio onnipotente, non faccia a faccia, ma in Cristo e per mezzo di Cristo, può ardire di sottomettere e di aprire il proprio cuore a Dio, e arriva persino a sentirne il desiderio… Erano probabilmente queste le condizioni di spirito di Agar quando ella disse: «Tu, o Dio, mi hai ve­duto» (Gn. 14, 13), e possiamo pensare che per lo stesso motivo Davide chiese: « Scrutami, Signore, e mettimi alla prova, raffinami al fuoco il cuore e la mente. » (Sal. 26, 2). Esempi più specifici di un tale atteggiamento li troviamo in san Paolo, il quale sembra si diletti di aprire il suo cuore al Signore e di sottoporlo al suo sguardo, desiderando che egli vi si renda presente: è ciò che possiamo appunto chia­mare la gioia di una buona, coscienza. « «Io ho agito fino ad oggi davanti a Dio in perfetta rettitudine di coscienza». » (Atti 23, 1) ; « Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio. » (2 Cor. 1, 12). Ed anche quan­do parla della testimonianza dello Spirito, l’Apostolo vuole forse esprimere proprio questo: la soddisfazione e la tran­quillità che l’anima prova quando riesce ad affidarsi del tutto a Dio, a non desiderare se non di fargli piacere.

Ecco la pienezza della pace, che nessuno, tranne Dio, può donare. Nella misura in cui ci stacchiamo dall’amore del mondo e moriamo alle creature, nascendo all’amore del Signore per mezzo dello Spirito, questo stesso amore testi­monia della sua propria origine: « Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. » (Rom. 8, 16).

La felicità consiste dunque nella contemplazione di Dio, contemplazione che sola può accompagnare l’anima sem­pre e dovunque, perché solo Dio è sempre e dovunque pre­sente. Ma il sentimento della presenza di Dio non si limita a costituire la base della pace di una buona coscienza: esso fonda anche la pace che scaturisce dal pentimento. A prima vista potrebbe sembrare strano che il pentimento porti con sé conforto e tranquillità. Invece è proprio il Vangelo che promette di trasformare in gioia ogni dolore, dandoci mezzo di rallegrarci nella desolazione, nella debolezza e nel disprezzo. « Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, dice l’Apostolo, perché l’amore divino si è riversato nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato » (Rom. 5, 3 ss.).

Se c’ è una tristezza che potrebbe sembrare fatta di mi­seria e solo di miseria, senza il minimo posto nel Vangelo, è proprio il pentimento di avere abusato della misericordia divina; se c’ è un momento in cui la presenza dell’Altis­simo può a prima vista apparire intollerabile, è certo quello in cui la consapevolezza di esserci ribellati con tanta ingra­titudine contro di lui ci illumina d’improvviso. Invece non vi può essere vero pentimento senza il pensiero di Dio. Se qualcuno cerca il Signore, necessariamente pensa a lui, e se lo cerca, già vive nell’amore: anche il dolore deve avere una sua dolcezza, se l’amore lo muove.

All’estremo opposto il rimorso, che l’Apostolo chiama « il dolore del mondo », « produce la morte » (2 Cor. 7, 10). Invece di dirigersi alla fonte della vita, al Dio di ogni consolazione, l’uomo agitato dal rimorso si chiude nei suoi pensieri e non fa parte a nessuno del suo dolore. Con Dio egli non vuole confidarsi, né gli è possibile d’altra parte confidarsi col mondo. Il mondo non presterebbe ascolto alla sua confessione, perché è un buon compagno, ma un pessimo amico. Non può avvicinarsi e restare al nostro fianco, perché non è il « Consolatore » ; ci lascia sepolti nei nostri segreti pensieri dove regna il tumulto o, nel migliore dei casi, la morte.

Tale è il nostro stato se viviamo per il mondo, sia nel dolore che nella gioia, sempre rinchiusi in noi stessi e quindi infelici. È necessario sfuggire a noi stessi per cercare altrove conforto; e per quanto desideriamo di trovarlo fuori di Dio, forgiando degli idoli, nulla, tranne la sua presenza, costi­tuisce un rifugio sicuro: ogni altra cosa è finzione o espe­diente limitato nella durata e nelle proporzioni.

Quanto è miserabile colui che non conosce in concreto questa grande realtà! Di anno in anno sarà sempre più infelice o si ritroverà tutto ad un tratto in un abisso di sof­ferenza, quando, da questo mondo di ombra, sarà passato nel regno dove tutto è concretezza assoluta. La vita tra­scorre rapida, sfuma la ricchezza, instabile è il favore degli uomini, mentre i sensi si affievoliscono, il mondo si cam­bia e muoiono gli amici: uno solo può rappresentare tutto per noi, esaudire i nostri desideri e condurci alla perfezione; uno solo può darci la chiave della nostra complessa e intri­cata natura, infondendovi accordo e armonia: uno solo – Iddio – può darci le nostre vere dimensioni e posse­derci totalmente. Il problema non è se dobbiamo andare a Dio, ma se egli vorrà riceverci. E noi confidiamo, nono­stante i nostri peccati, che il Signore ci riceverà ancora, uno per uno, se cerchiamo il suo volto con amore perfetto e santo timore. Facciamo dunque la nostra parte, come lui in modo sovrabbondante ha fatto la propria, e diciamo col Salmista: «Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre. » (Sal. 73, 25 ss.).

estratto da PPS vol V, The Thought of God, the Stay of the Soul, 314-326.