Coscienza e verità nel dramma del peccato e della grazia secondo John Henry Newman

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P. Hermann Geissler, FSO

Nella famosa Lettera al Duca di Norfolk John Henry Newman scrive: “Certamente, se sarò costretto a coinvolgere la religione in un brindisi al termine di un pranzo (cosa che in realtà non è proprio il caso di fare), brinderò al Papa – se vi fa piacere – ma, prima alla coscienza e poi al Papa” (Diff II 261). Prima alla coscienza e poi al Papa! Non è pericolosa quest’affermazione? Non sottomette il Papato alla coscienza individuale? Non rischia di cadere in un soggettivismo, che infine distrugge non solo il Magistero della Chiesa, ma la verità come tale? Ecco, ci troviamo già nel cuore della questione.

Il tema della coscienza occupa senza dubbio un posto prioritario nella vita e nelle opere di Newman. Infatti, fin dalla sua giovinezza Newman ha seguito passo a passo la voce della sua coscienza, e ha parlato sempre di nuovo della necessità dell’uomo di obbedire fedelmente a questa voce interiore. D’altra parte Newman ha sostenuto con la stessa forza che l’uomo è al di sotto della verità e non al di sopra di essa (cf. Dev 357), e che è chiamato a seguire la luce benigna della verità. Sembra quindi che per lui la fedeltà alla coscienza soggettiva non escluda la fedeltà alla verità oggettiva, come pensano non pochi nel nostro tempo. Cos’è, secondo Newman, la relazione tra coscienza e verità? Questo contributo tratta il tema non in modo astratto e concettuale, ma considerandolo nel dramma della storia della salvezza, cioè (1) nello stato originale dell’inizio, (2) nello stato della caduta nel peccato e (3) nello stato redento della grazia di Cristo.

1. L’uomo dell’inizio

Non essendo un teologo sistematico Newman non ha scritto un trattato vero e proprio sulla creazione e sul paradiso. Tale stato primitivo tuttavia costituisce spesso lo sfondo, su cui lo stato attuale spicca in tutta la sua asprezza.

Creando l’uomo “a sua immagine” Dio lo rivestiva con doni che elevavano la sua natura terrena e la perfezionavano. Il dono più prezioso, che il Creatore gli aveva infuso, era la grazia divina, cioè, secondo Newman, la presenza interiore del Verbo Divino e dello Spirito Santo. L’immagine biblica del paradiso significa che Adamo viveva alla presenza di Dio, nello stato di amicizia personale con il suo Creatore, cioè nella santità. Era immerso nella luce della grazia in modo tale che “la grazia in lui occupava il posto della buona consuetudine; la grazia era il suo abito interno ed esterno. La grazia lo liberava dallo sforzo per la santità, perché la santità viveva in lui” (PPS V 108).

Per questo l’uomo paradisiaco adempiva perfettamente la legge di Dio. La sua vita era una vita pienamente conforme al progetto di Dio su di lui. Non doveva faticosamente impegnarsi a compiere la volontà di Dio. La grazia gli dava la forza di agire secondo la legge divina, con prontezza e facilità.

Adamo seguiva la via della verità, era libero da ogni forma di errore. Con il suo intelletto poteva riconoscere Dio, con la sua volontà l’amava. Tutte le sue forze intellettuali, volitive ed emotive erano orientate verso la verità e l’amore. Non c’era neanche un’ombra di peccato su di lui. Non conosceva il male, e il male non aveva nessun potere su di lui. Ecco, perché, secondo Newman, l’uomo dell’inizio non aveva ancora la coscienza morale, la quale avrebbe dovuto indicargli i suoi atti peccaminosi. La sua felicità consisteva nell’essere alla presenza di Dio e nel fatto che “non pensava a se stesso e non metteva al centro della coscienza il proprio Io” (PPS VII 259).

Il suo spirito era semplice come quello di un bambino: né calcolatore né intellettualistico. Non sperimentava al suo interno la tensione e la disarmonia che caratterizzano l’uomo caduto. “La soprannaturale grazia venne a conferire un significato, uno scopo, una sufficienza, una coerenza, una certezza alle molteplici facoltà di quel composto d’anima e di corpo che costituisce l’uomo” (Serm Cat 129). Non c’era nessun conflitto e nessuna ostilità tra le diverse facoltà umane, le quali furono focalizzate ad un unico fine: alla Verità e alla Bontà, cioè a Dio stesso.

Secondo Newman l’uomo paradisiaco conosceva e adempiva spontaneamente e facilmente la legge di Dio. Questa affermazione però non deve guidare alla conclusione che l’uomo dell’inizio avrebbe vissuto il vero e realizzato il bene in modo “automatico”. In qualche modo doveva interiorizzare la verità morale, comprendendo il suo valore e mettendola in pratica liberamente. Altrimenti non si potrebbe parlare di bontà morale.

Quindi se Newman in qualche modo sembra disconoscere la coscienza morale all’uomo dell’inizio, ciò accade solo per l’esperienza della voce accusante della coscienza, che Adamo non conosceva prima della caduta. L’uomo dell’inizio doveva tuttavia godere di una “coscienza originaria”, con la quale poteva comprendere la verità come un bene, come un appello alla propria persona.

2. Le conseguenze del peccato

La fede ci insegna che l’uomo non è rimasto fedele al piano del Creatore. Ha peccato, perso la presenza divina ed è caduto nel potere del male. Le conseguenze del peccato originale pesano su tutta la discendenza di Adamo. L’uomo le incontra ad ogni passo della sua esistenza. Secondo il pensiero di Newman, la caduta è di importanza decisiva per la formazione concreta della coscienza morale e per la relazione dell’uomo con la verità.

Nell’uomo paradisiaco non c’era ancora nessuna tensione tra libertà divina e libertà umana. La volontà dell’uomo era perfettamente finalizzata alla volontà di Dio. Ribellandosi contro Dio l’uomo ha distrutto questa unione meravigliosa e la legge, nella quale viveva, si è separato – per così dire – dal suo cuore. Si è presentato come “nemico” della sua libertà. Qui si trova, secondo Newman, l’origine dell’esperienza della coscienza morale: “Loro (Adamo ed Eva) hanno mangiato dall’albero… e – ah! – hanno conosciuto chiaramente ciò che è peccato, pudore, morte, inferno e disperazione. Hanno perso la presenza di Dio e ricevuto la conoscenza del male. Hanno perso il paradiso e ricevuto l’accusa della coscienza” (PPS VIII 258).

Quindi per Newman la coscienza attuale, in un certo senso, rappresenta ciò che resta del “paradiso” nell’uomo caduto, perché attraverso la coscienza egli può ancora in qualche modo conoscere la verità e la volontà di Dio. Ma mentre nel paradiso viveva pienamente secondo la verità di Dio, egli dopo aver fatto il male riconosce tale verità nella coscienza soprattutto come rimprovero e accusa.

Newman vede una relazione fra la caduta dell’uomo e l’origine della coscienza morale attuale. In tal modo egli cerca di spiegare perché la coscienza morale si presenta non esclusivamente, ma principalmente, quando l’uomo ha peccato; l’esperienza della coscienza cattiva è molto più forte di quella della coscienza buona. Ma la debolezza di questa teoria sta nel fatto che non mette in luce adeguatamente il nesso tra creazione e coscienza, aspetto tanto caratteristico per la tradizione cattolica. Perciò come cattolico Newman ha dovuto lasciare questa sua teoria, chiamando la coscienza semplicemente un “dato della natura” infuso dal Creatore. Ciononostante il pensiero di Newman sull’origine della coscienza costituisce un valido elemento complementare per spiegare il fenomeno della coscienza.

Con il peccato l’uomo perse la vita soprannaturale. Inoltre, le sue facoltà naturali – la ragione, la volontà, il sentimento – furono profondamente ferite, anche se non totalmente corrotte. La sua ragione fu oscurata: perché mancava la luce della grazia, spesso si muoveva nel buio, nell’ignoranza, nella cecità. La sua volontà fu indebolita; aveva tante difficoltà a compiere il bene; possedeva poca forza interiore e poco equilibrio, fu incostante e spesso non capace di resistere agli influssi cattivi dall’esterno e dall’interno.

La sua armonia interiore fu distrutta: “La grazia è sparita, l’anima non ha più nessuna coesione; si rompe in pezzi; le sue facoltà lottano contro se stesse” (SVO 6). Le differenti facoltà umane – così dice Newman – non si contentavano più del loro compito proprio; hanno “lasciato il loro posto proprio nella natura umana, che è un posto di subordinazione, e hanno congiurato contro l’interiore luce divina, che è la loro vera guida” (PPS V 114).

Newman paragona le facoltà dell’uomo caduto con un regno che è spezzato in parti. Questi piccoli “regni” sono in guerra tra di loro. Ognuno di essi cerca di dominare tutto il regno. “Ognuno porta in sé tutte queste facoltà diverse, le quali combattono fra di loro nel cuore: la concupiscenza, la passione, l’ambizione mondana, la ragione e la coscienza cercando ognuno di prendere in possesso tutto l’uomo” (SVO 7).

A causa della valanga dei peccati, anche la coscienza stessa fu pian piano ferita. La sua voce suonava sempre più silenziosa e imprecisa. Cadeva sotto l’influsso della ragione orgogliosa e delle passioni disordinate. Per questo fu deformata in modo notevole. In questa miseria l’uomo non ha più riconosciuto la vera felicità, che è Dio. Ha creato – così afferma Newman – degli “idoli” per dare alla vita un senso nuovo: il progresso, l’attivismo, la varietà, la ricchezza, il godimento, ecc. (cf. SVO 51). L’elemento comune a tutti questi “idoli” stava nel fatto che l’uomo non guardava più a Dio, ma a sé stesso. Egli ha iniziato a seguire “l’impulso del proprio spirito alla contemplazione di sé stesso” (PPS VIII 259), e il suo Io è venuto ad occupare un posto così dominante da sbarrare l’accesso alla realtà, soprattutto a Dio. Perciò Newman scrive circa la caduta di Adamo: “Ha ricevuto la conoscenza desiderata; e il primo atto dopo il peccato è stato, come viene raccontato, un pensiero su sé stesso; si è nascosto sotto gli alberi del giardino. Non era più capace di contemplare la gloria fuori del proprio Io; tutta la sua attenzione era occupata dalla vergogna che restava su di lui” (PPS VIII 259).

L’uomo caduto fu quindi privo della grazia. Non viveva più nella verità di Dio come l’uomo dell’inizio. La sua volontà non fu più orientata verso Dio, l’eco di cui poteva ancora percepire nella sua coscienza. Ma sempre di più anche la coscienza stessa, riflesso dello “stato paradisiaco”, fu degenerata e influenzata dall’egoismo e dal tentativo di scusare i propri peccati e di giustificare se stesso.

3. L’uomo redento nella grazia di Cristo

Ma il Dio misericordioso non ha voluto lasciare l’uomo nella miseria e gli si è avvicinato di nuovo. Già al Popolo d’Israele aveva rivelato la sua volontà, soprattutto nella Legge di Mosè e nei Profeti. Nella pienezza dei tempi si è fatto uomo in Gesù Cristo, per redimere l’uomo dalla schiavitù del peccato e per aprirgli di nuovo la porta al mondo della grazia e della verità. “Adamo è caduto dalla grazia del Creatore e diventato un prigioniero; Cristo è venuto per liberarci donandoci lo Spirito di filiazione, mediante il quale diventiamo figli di Dio e nel quale possiamo avvicinarci di nuovo a Dio nostro Padre” (PPS V 314). Con le parole di San Paolo Newman afferma che il Messia ha generato la creazione nuova, il secondo inizio, la rigenerazione del mondo. Ha aperto all’uomo la porta a un altro “paradiso”, che è più glorioso e rende più felice di quello del primo inizio.

Con la grazia Dio ridonava all’uomo la luce necessaria per riconoscere la verità, cioè il dono “di una certa facoltà di percepire le realtà dello spirito” (Serm Cat 129). La grazia non è donata solo per guidare l’uomo a un sapere più profondo e sicuro delle realtà spirituali, ma per donargli anche la forza di metterlo in pratica nel compimento fedele dei doveri verso Dio e il prossimo. Finalmente la grazia stabilisce di nuovo l’autentica armonia della natura umana. La grazia deve trasformare tutte le facoltà della natura umana, cosicché vengono quasi rigenerate. “Dovete nascere di nuovo: ecco l’espressione semplice e diretta che la Chiesa usa, a somiglianza del suo Divino Maestro. Tutta la vostra natura deve essere rigenerata; passioni, affetti, aspirazioni, coscienza, volontà, tutto deve essere immerso in un nuovo elemento e riconsacrato al Creatore: ultimo in ordine di tempo ma non d’importanza, il nostro intelletto” (Ap 265s).

Quindi tutto, anche la coscienza, deve rinnovarsi nella grazia per poter compiere la sua propria missione; deve essere immersa nella luce e forza soprannaturali e così finalizzata di nuovo pienamente alla verità divina. Ma l’uomo redento non vive nella verità come l’uomo prima della caduta, in modo da poterla comprendere spontaneamente. Malgrado la grazia, deve impegnarsi con forza per conoscerla, per amarla, per metterla in pratica. Il cristiano non è immune dall’errore. Trovare e realizzare la verità, non è facile per lui; più prezioso è il suo oggetto, più difficile è scoprirla.

3.1. Coscienza e intelletto

Il primo passo essenziale sulla strada verso la verità sta nel tentativo dell’uomo di superare la sua indifferenza e di cercare la verità con cuore sincero. “Siamo tenuti in coscienza a cercare la verità” (GA 255). Sappiamo che la verità è “l’oggetto proprio dell’intelletto” (UE 151), il quale in sé anche può conoscere diverse verità morali e religiose. Tuttavia, nel suo stato storico non è così: “Non ho certo intenzione di negare che la verità è il vero oggetto della nostra ragione, e che se la ragione non raggiunge la verità, ha sbagliato nelle premesse o nel metodo; ma qui non parlo della retta ragione, ma della ragione in quanto agisce concretamente e di fatto nell’uomo decaduto. So che la ragione, anche senza aiuto, quando è esercitata rettamente, porta a credere in Dio, nell’immortalità dell’anima e nella ricompensa futura; ma io considero qui la facoltà della ragione nella sua concretezza e dal punto di vista storico; e da questo punto di vista non credo di sbagliarmi dicendo che essa tende a una pura e semplice incredulità in fatto di religione” (Ap 261).

Il processo della ricerca della verità, particolarmente in campo religioso e morale, è molto complesso. La ragione infatti è esposta a tantissimi influssi interiori ed esteriori. Per tale motivo il teologo di Oxford non si stanca di mettere in evidenza la necessità di una certa disposizione morale nella ricerca della verità. In un’omelia distingue tra due tipi di uomini: “L’uno è attivo, l’altro è passivo… L’uno va incontro alla verità, l’altro pensa che la verità dovrebbe venire a lui” (SVO 69). L’ultimo è dell’opinione che la verità dovrebbe imporsi a lui. Pensa che potrebbe avvicinarsi alla verità solo confidando nelle forze del suo intelletto. Secondo Newman, non la troverà, ma rimarrà nel buio. Il primo invece, che si affretta verso la verità, la troverà. Per questo Newman scrive in una lettera: “Se esiste una via per trovare la verità religiosa, non sta nelle operazioni razionali dell’intelletto, ma è vicina al dovere, alla coscienza, all’osservazione della legge morale” (LD XXIV 275).

Distanziandosi da ogni forma di razionalismo e di irrazionalismo Newman sostiene con forza che la ricerca della verità non chiede solo una ragione attiva, ma anche e prima di tutto una coscienza sincera. Per provare questa affermazione sarebbe da esaminare accuratamente la Grammatica dell’assenso. Nicolaus Theis riassume questo pensiero tipico di Newman con le parole seguenti: “Newman non crede in un pensiero ‘puro’, liberato da ogni forma di pregiudizi, sentimenti e attitudini morali. Come la verità non esiste per sé sola, non viene trovata su vie proprie, ma sulle vie del dovere. II bene ha a che fare con il vero – summum verum, summum bonum -, e per trovare la verità, non dobbiamo solo applicare le leggi del pensiero, ma prima averla cercata e amata anche e soprattutto secondo i principi etici” (An den Quellen des persönlichen Denkens. Einführung in J.H. Newmans “Grammar of Assent”: NS II 214). Per il nostro tempo, tanto influenzato dall’intellettualismo, questo aspetto del pensiero di Newman è di estrema attualità.

3.2. Coscienza e fede

Una luce purificatrice per la ragione nella ricerca della verità naturale, e un presupposto indispensabile per trovare la verità rivelata, è il dono della fede. La fede è una via assolutamente nuova per giungere alla verità, una via al di sopra della ragione e della coscienza naturale. La fede è l’accoglienza fiduciosa della verità grazie al messaggio di testimoni attendibili. Pur accettando pienamente questo principio cattolico, Newman insiste anche qui sempre di nuovo sull’importanza della preparazione interiore del cuore.

Il predicatore di Oxford è convinto che l’obbedienza alla coscienza prepara il terreno per l’obbedienza alla rivelazione che è l’essenza della fede. Dice in un’omelia: “Obbediamo alla voce di Dio nel nostro cuore e voglio affermare che non dubiteremo seriamente della verità della Scrittura” (PPS I 201). E ancora: “Seguite dunque il vostro senso per il giusto e mediante questa obbedienza al vostro Creatore troverete – in seguito all’imperativo della coscienza naturale – la convinzione della verità e potenza di quel Redentore che vi ha portato un messaggio dal cielo” (PPS VIII 120). Attraverso la propria esperienza il famoso convertito sa “che l’obbedienza alla coscienza conduce all’obbedienza al vangelo…, che non è una cosa totalmente diversa, ma il compimento e il perfezionamento di quella religione che insegna già la coscienza naturale” (PPS VIII 202). Newman vede sia nell’obbedienza alla coscienza sia nell’obbedienza alla rivelazione, cioè nell’obbedienza della fede, un atto di subordinazione a una verità al di sopra dell’uomo. Da qui la connessione intima tra coscienza e fede.

Tuttavia anche se Newman scopre questa connessione stretta, non dimentica la distinzione essenziale tra fede e coscienza: mentre la fede è una virtù soprannaturale che ci apre la porta alla rivelazione, la coscienza come tale è una istanza naturale che ci comanda come agire in una situazione concreta. Quindi la coscienza come tale non ha competenza nel campo soprannaturale; la coscienza non può giudicare su verità dottrinali. In una sua lettera l’anziano Newman afferma: “Nelle cose dottrinali ‘la maestà della coscienza’ non è la Corte adeguata per ciò che vorrei tenere come affermazione valida sulla materia” (LD XXIX 388).

Dunque l’accoglienza o meno di una verità rivelata – ad esempio la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia – non è in primo luogo una questione di coscienza, ma di fede. Se una persona è convinta di non poter accettare una tale verità di fede, viene guidata dall’infedeltà. O meglio, la sua coscienza non è ancora rigenerata e illuminata dalla fede, ma si trova ancora nel buio dell’ignoranza. Quindi la coscienza del cristiano deve essere una coscienza orientata e informata dalla fede.

D’altra parte la fede deve mostrarsi negli atti concreti della vita. Newman dice che la fede deve essere un “real assent”, un assenso reale: non è assenso dell’intelletto a verità concettuali, ma è assenso di tutto l’uomo a verità reali. La fede quindi deve illuminare la coscienza, cioè il nucleo più intimo dell’uomo, il suo “cuore”, dal quale scaturiscono gli atti buoni e cattivi, come dice il Vangelo (cf. Mt 15,19). Le verità della fede non devono essere solo registrate nella ragione dell’uomo, ma realizzate nella sua vita. Newman insiste molto che tali verità sono da accettare, da assimilare, da applicare e da mettere in pratica, cosicché diventano vita nella propria vita.

3.3. Coscienza e Chiesa

La logica interiore del pensiero di Newman guida l’uomo sincero ancora un passo avanti. Newman è convinto che l’obbedienza alla coscienza può condurre l’uomo nel seno della Chiesa. Afferma che le disposizioni morali scaturendo dall’obbedienza alla coscienza sincera costituiscono “un ‘organum investigandi’, dato a noi per giungere alla verità religiosa, tale che da solo può condurre le nostre menti, in una sequenza infallibile, dal rifiuto dell’ateismo al teismo, dal teismo al cristianesimo, da questo alla religione evangelica, da questa alla cattolica” (GA 316).

La vita di Newman è come una “prova” di questa sua frase. Trent’ anni dopo l’accoglienza nella piena comunione della Chiesa cattolica scrive: “Fin dall’anno 1845 (l’anno della conversione) non ho dubitato neanche per un momento che è stato il mio dovere evidente – come l’ho fatto – di collegarmi a quella Chiesa cattolica riguardo a cui ho sentito nella mia propria coscienza che è divina” (Diff II 349).

Sono poche le persone che hanno una coscienza così sensibile come Newman; non è pertanto la massa che segue il suo esempio. Ma fino ai nostri giorni ci sono migliaia di fedeli che sentono in coscienza di dover fare lo stesso passo; e sembra che divengano sempre più numerosi.

Negli scritti di Newman si trovano due ragioni principali per cui la coscienza apre la via verso la Chiesa cattolica. L’una è il fatto che la coscienza, soprattutto la coscienza cattiva, non è una voce indulgente e misericordiosa, ma – al contrario – accusa l’uomo di essere peccatore. E’ una voce che “non ha niente di dolce o di pietà nel suo suono. E’ rigorosa, persino dura. Non parla del perdono, ma della punizione. Rimanda l’uomo a un giudizio a venire, ma non gli dice come potrebbe sfuggirlo. Inoltre, non gli insegna, come potrebbe migliorarsi; l’uomo si sente sempre più peccaminoso; si rende schiavo di una potenza che ancora ama troppo” (SVO 67). Questi momenti severi dell’esperienza della coscienza mostrano la necessità della redenzione dell’uomo. Essi creano nel suo cuore un desiderio di perdono, di riconciliazione. I riti dei sacrifici presenti in tutte le religioni sono un’espressione di questo desiderio profondo dell’uomo. Tuttavia, secondo Newman, solo il messaggio del Dio fatto uomo, del Dio crocifisso e risorto per noi, del Dio presente nella Chiesa e nei sacramenti, può tranquillizzare pienamente tale inquietudine del cuore umano.

La seconda esperienza significativa della coscienza è la sua debolezza e incertezza. E’ una guida silenziosa, povera, troppo spesso influenzata da altre voci forti; in tal modo crea nell’uomo un desiderio di una guida più sicura, forte, autorevole. “Il senso per il giusto e l’ingiusto (cioè la coscienza) è tanto fragile, tanto sottomesso al caso, tanto facilmente turbato, oscurato o perverso, tanto sottile nel modo di argomentare, tanto impressionabile dall’educazione, tanto guidato dall’orgoglio e dalla concupiscenza, tanto incerto nel suo corso, che nella lotta dell’essere in mezzo alle differenti azioni e trionfi dello spirito umano, tale senso è allo stesso tempo il più alto e anche il meno preciso di tutti i maestri, e la Chiesa, il Papa, la gerarchia sono, secondo il piano di Dio, il rimedio ad un bisogno urgente” (Diff II 254).

Esiste, quindi, un ampio campo d’interferenza tra la coscienza personale e l’autorità della Chiesa, che sarebbe un grave errore voler ignorare. Da una parte, la coscienza come tale ha bisogno di una guida certa e sicura. Nella Chiesa cattolica l’uomo credente trova la roccia della verità: “Alla Chiesa sono commesse la custodia e l’interpretazione della rivelazione. La parola della Chiesa è la parola della rivelazione. Il dogma fondamentale della religione cattolica è che la Chiesa è l’oracolo della verità” (GA 92).

Nel campo della fede e della morale, la coscienza penetrata e formata dalla fede, spinge quindi il fedele a rivolgersi immediatamente alla Chiesa. Ecco, il significato principale del famoso brindisi di Newman al Papa, anzi prima alla coscienza e poi al Papa.

D’altra parte la Chiesa come tale ha bisogno della coscienza, perché – come è sempre stato dottrina della Chiesa – l’uomo, anche il cristiano cattolico, deve seguire la voce della sua coscienza, che si presenta come un'”eco della voce di Dio” (GA 111s). Newman afferma nella Lettera al Duca di Norfolk che la coscienza è la legge divina che Dio ha infuso all’uomo. Anche se la coscienza non è infallibile e può cadere nell’errore, “non perde il suo carattere come legge divina, ma come tale ha il diritto di chiedere l’obbedienza… La legge regola il nostro modo di agire tramite la nostra coscienza. Perciò non è mai permesso di agire contro la nostra coscienza, come dice il Quarto Concilio Lateranense: ‘Quidquid fit contra conscientiam, aedificat ad gehennam'” (Diff II 247).

Inoltre, Newman sostiene che presumere da parte dell’autorità di avere il predominio sulla coscienza non solo è sconsiderato, ma anche contro natura, giacché “sulla legge della coscienza e sul suo carattere sacro sono basati tanto l’autorità del Papa teologicamente parlando, quanto il suo esercizio ministeriale” (Diff II 252). In forza di questa convinzione, Newman, in relazione alla controversia suscitata dai Decreti del Concilio Vaticano Primo, afferma che “se il Papa parlasse contro la coscienza nel vero senso della parola, commetterebbe un atto suicida. Si toglierebbe il terreno da sotto i piedi, poiché la sua missione è quella di proclamare la legge morale, e di proteggere e rinforzare quella luce che illumina ogni uomo che viene al mondo” (Diff II 252).

Queste frasi sono forse un po’ esagerate, perché la missione del Papa non è solo proclamare la legge morale. Ciononostante esse mettono in evidenza il ruolo indispensabile della coscienza nell’atto dell’obbedienza all’autorità ecclesiale. L’obbedienza al Papa e al Magistero in genere non è una obbedienza esteriore, cieca. Si tratta, invece, di una obbedienza interiore, ragionevole, cercata: è un obbligo della coscienza, certamente della coscienza illuminata dalla fede, cioè della convinzione che lo Spirito della verità impedisce alla Chiesa di cadere nell’errore e che Gesù stesso guida la Chiesa, il suo corpo, nonostante le debolezze dei suoi rappresentanti umani. Il cristiano cattolico è fedele al Papa, perché è fedele alla sua coscienza. Secondo Newman quindi non c’è contraddizione tra coscienza e autorità ecclesiale. Al contrario, c’è un reciproco supplemento perché sia la coscienza sia il Magistero sono sottomessi alla verità. Tale verità si mostra ad ogni uomo attraverso la voce della coscienza, e all’uomo credente anche attraverso la voce della rivelazione custodita ed interpretata dalla Chiesa. Ma la verità è una sola; dunque non può esserci contraddizione fra la verità riconosciuta in coscienza e la verità proclamata dalla Chiesa.

Conclusione

In tutta la sua vita Newman ha difeso la dignità della coscienza. Ma poiché essa è sottomessa a molteplici influssi nel dramma della storia della salvezza, nella lotta tra la luce e le tenebre, Newman ha ribadito sempre che la coscienza deve essere rigenerata nella grazia di Cristo e formata alla luce della fede. Allo stesso tempo il teologo di Oxford ha sostenuto con forza che l’obbedienza sincera alla coscienza conduce l’uomo pian piano alla verità, che ha perso a causa del peccato. Lo spinge a credere in Dio, la cui voce, come una eco, risuona ancora nella coscienza. Lo invita ad accogliere la rivelazione trasmessa dalla Chiesa; in essa si appagano i desideri più profondi del cuore umano e si chiariscono le incertezze del suo essere.

La coscienza – così affermava Newman – “è la messaggera di Colui… che ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti. La coscienza è l’originario Vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi” (Diff II 248). E ancora: “Molto lontano dal sedurre l’uomo nell’errore, le cognizioni della coscienza, se fedelmente osservate, lo condurranno con sicurezza alla fede solida della Scrittura. In ciò l’uomo troverà confermate, adempiute ed illuminate tutte quelle supposizioni imprecise ed opinioni imperfette sulla verità, che il suo proprio cuore gli suggerisce” (PPS I 217).