Umiltà di spirito e santità

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Le parole del pubblicano: « O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore » (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e in epo­che più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno, comuni ad ogni religione. Ma la particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, con­siste in questo: il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti esem­plari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo l’estatica, aperta confessione.

È una confessione che non esce unicamente dalle lab­bra dei catecumeni o di chi è caduto; non è neppure esclu-siva proprietà della gente comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da sé il pec­cato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati delle schiere celesti, che « hanno imbiancato le loro vesti nel san­gue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Ada­mo e della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi continuano a par­lare solo delle proprie infedeltà. I giovani senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha pec­cato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».

Questa profonda umiltà è l’insegna e il pegno più carat­teristico dei servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: « Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).

Siamo, lo si vede, molto lontani dal riconoscimento pu­ramente generale della colpevolezza dell’uomo e del biso­gno di espiazione proprio delle antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo singolo, su de­terminati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene intro­dotto ad una funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di perfezione pro­prio dell’insegnamento cristiano: « Non vi è alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) – « Tutti hanno peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23) – « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) – insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.

Mi piace ricordare qui un bellissimo racconto conte­nuto nelle opere di uno scrittore dell’antichità. Quanto più è bello, tanto più si adatta al nostro intento presente, per­ché dal contrasto ne sarà meglio messo in risalto il punto debole: mentre esso, in un certo senso, insegna la pietà, non parla invece affatto dell’umiltà. Il Salmista, per descri­vere la felicità dell’uomo dice: « Beati coloro cui sono rimes­si i falli e ricoperti i peccati. Beato l’uomo cui il Signore non imputa colpa » (Sal., 31, 1 ss.). Ecco la felicità evangelica. Ma quale è la felicità, secondo la religione natu­rale? – Un famoso saggio della Grecia fece visita un gior­no al potente Re della Lidia. Questi, dopo avergli mostrato tutta la sua grandezza e la sua gloria, gli chiese quale, fra quelli che aveva conosciuto, gli sembrasse l’uomo più for­tunato. Il filosofo si guardò bene dal dire che era proprio il suo interlocutore, l’uomo che meglio si avvicinava all’ideale della perfezione. Citò invece uno dei propri concit­tadini. « Il più felice tra gli uomini, disse, era Tello Ate­niese: Ebbe infatti la fortuna di vivere in una fiorente città e fu testimone della prosperità dei suoi figli e delle loro famiglie. Quando la guerra scoppiò tra Atene ed uno Stato confinante, egli prese il suo posto in battaglia, contribuì efficacemente a ricacciare il nemico e, dopo una morte glo­riosa, fu sepolto a spese dell’erario nel luogo stesso dove era caduto e ricevette pubblici onori. » Il Re allora chiese chi, secondo il giudizio di Solone (così si chiamava il filosofo), fosse secondo nella graduatoria. Il saggio allora parlò di due fratelli, atleti vincitori di numerose gare. Essi stessi, dato che i buoi si rifiutavano, tirarono il carro sul quale si trovava la loro madre, che era sacerdotessa, fino al tem­pio, tra l’ammirazione della folla. La preghiera della ma­dre, affinché gli Dei concedessero ai suoi figli il migliore dei premi, fu esaudita: dopo aver offerto sacrifici e parte­cipato alle feste, essi si stesero nel tempio a dormire e mai più si rialzarono. – Nessuno può negare la bellezza di que­sti racconti. Ma la vera ragione per cui li abbiamo scelti è da ricercarsi nella mentalità da cui sono ispirati i loro personaggi: si tratta di uomini apparentemente liberi da gravi responsabilità nei confronti di Dio, i quali sono però consapevoli di aver scelto per sé doveri facili ad eseguirsi.

Giunti qui, potremmo domandarci se il concetto pagano della religione non sia di fatto più alto di quello che abbia­mo chiamato « caratteristicamente cristiano », dal momen­to che un’obbedienza serena e fiduciosa rappresenta per la creatura il modo di agire più nobile e la forma di culto più gradita a Dio che si possa concepire. Che si tratti del culto più eccellente, non c’è dubbio: sono precisamente gli an­geli che lo esercitano, e gli spiriti beati; dopo la risurre­zione finale anzi, esso sarà il retaggio dell’intera schiera de­gli eletti. Ma non dobbiamo dimenticare che stiamo par­lando dello stato attuale dell’uomo in quanto cittadino di questo mondo. Ed è proprio la considerazione delle condi­zioni dell’uomo che induce a giudicare inadeguato e falso qualsiasi sistema morale che non ne ponga in risalto gli autentici e molteplici peccati e la radicale incapacità di piacere a Dio con le sole forze della natura. Ogni regola di vita che lasci l’uomo soddisfatto di sé, libero da qualsiasi timore, ansietà, umiliazione, è ingannevole. Si ripete il caso del cieco che guida un altro cieco. Eppure, in una forma o nell’altra, tutte le religioni della terra, eccetto il cristiane­simo, battono proprio questa via.

La coscienza, se profondamente coltivata e illuminata dagli aiuti esterni che in diversi gradi ma sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, le sono dati, può senza dubbio inse­gnare all’uomo moltissime cose sui suoi doveri verso Dio e verso il prossimo e guidarlo, assistita dalla Provvidenza e dalla Grazia ad una piena consapevolezza religiosa. In ge­nerale però, l’uomo si accontenta di apprendere assai poco dalla propria coscienza e non fa nessuno sforzo per acqui­stare una visione più esatta di quella che tutti spontanea­mente possiedono, in fatto di rapporti col mondo circo­stante e col Creatore. Di conseguenza l’uomo comune viene a conoscere una parte e solo una parte della legge morale; è raro che si formi un’idea qualsiasi della perfezione e in­vece di dare delle proprie azioni un giudizio basato sulla loro origine, sul loro motivo ispiratore, si accontenta, nella maggior parte dei casi, di valutarle attraverso i risultati e le apparenze esteriori. La maggioranza si comporta così.

Nessuno vede davanti a sé l’immagine dell’Onnipotente o pensa a chiedersi che cosa realmente egli voglia: se appe­na gli uomini lo facessero incomincerebbero a capire quan­to il Signore esiga, e forse allora si avvicinerebbero a lui con serietà, sia per ricevere il perdono del male fatto, sia per chiedergli la forza di diventare migliori. Accade invece che essi riescano a piacere a se stessi proprio per il mede­simo motivo per cui non riescono a piacere a Dio. Un ri­stretto e manchevole complesso di doveri, profondamente differente dalla legge divina autentica, costituisce infatti tutto quello che sono capaci di osservare; o meglio essi lo scelgono e vi si attengono appunto perché possono osser­varlo. Niente di strano quindi che si sentano soddisfatti di sé e capaci di autonomia: giunti alla conclusione di cono­scere perfettamente il proprio dovere, perfettamente lo com­piono. Ecco la ragione per cui la gran maggioranza degli uomini vive tranquillamente e non teme nessun giudizio futuro sulla propria condotta, mentre la religiosità si riduce in gran parte ad osservanze esteriori non molto numerose.

Così ragionava anche il Fariseo del Vangelo. E poteva ben guardare a sé con compiacenza, dal momento che il suo livello spirituale era tanto basso, e tanto ristrette erano le sue vedute circa i doveri verso Dio e verso il prossimo. Egli del resto non faceva che usare – o abusare – delle tradizioni secondo cui era stato educato, allo scopo di per­suadersi che la perfezione consiste semplicemente nell’os-servanza delle convenienze sociali. Pretendeva sì di ringra­ziare Iddio, ma a mala pena riconosceva l’esistenza di per­sonali e precisi doveri verso di lui, perché, in effetti, non mirava se non a figurare davanti alla gente. La sua vita religiosa consisteva nel restare in pace col prossimo, nel contribuire ad alleviare le pene dei poveri, nell’ astenersi da alcuni vizi grossolani e nel dar buon esempio; le sue ele­mosine e i suoi digiuni non erano eseguiti a scopo di peni­tenza, ma solo perché il pubblico li richiedeva. La peni­tenza avrebbe implicato la coscienza della colpa, ma per lui erano unicamente i pubblicani e i loro consimili ad ave­re qualcosa da farsi perdonare: quelli erano scarti, della società, degni di disprezzo, mentre gli spiriti ben equili­brati, onorati e rispettabili non avevano nessun conto pen­dente. Per questo il Fariseo ringraziava Dio di essere quello che era e non un peccatore pentito.

Così pensavano i giudei dei tempi di Gesù e così anche i pagani. Le nozioni dei secondi sui doveri religiosi e mo­rali erano altrettanto vuote quanto quelle dei primi e altret­tanto assenti erano dal loro modo di vedere il senso del peccato, l’abitudine all’umiltà e l’aspirazione al penti­mento. I pagani avevano stabilito un codice etico a cui potevano obbedire senza sacrifici e di cui erano soddisfatti come di se stessi. Secondo Senofonte, scrittore assai dotato moralmente e religiosamente, gran conoscitore del mondo antico e quindi capace di sintetizzare gli ideali più elevati di numerose scuole e civiltà, la virtù consiste nel dominio degli istinti e delle passioni e nell’essere utili agli altri per­ché questi a loro volta siano utili a noi, Nel ben noto rac­conto della scelta di Ercole, egli dice che il vizio non riesce neppure a godere di quei piaceri a cui tanto aspira. La virtù invece ricompensa i giovani con la lode degli anziani e gli anziani con l’onore loro reso dai giovani. – Attra­verso simili elogi la virtù si rivela qualcosa di assoluta­mente esteriore – con la coscienza e con il Signore della coscienza, Dio, essa ha ben poco a che fare, e d’altra parte ignora del tutto cosa siano il rossore, l’umiliazione e il pen­timento. Si tratta ancora, quanto alla sostanza, della reli­giosità del fariseo, rivestita, se vogliamo, di maggior grazia e di maggior interesse.

L’età contemporanea è indubbiamente molto lontana, sia nel tempo che nella mentalità, da quella degli antichi greci. Ma chi può affermare che le idee religiose del mon­do di oggi, siano, quanto all’essenza, diverse da quelle dei pagani? Oggi si conoscono e si insegnano tantissimi prin­cipi estranei o contrari ai principi del paganesimo: lo so che la teologia della nostra epoca è assai differente da quella di duemila anni or sono. E so anche che gli uomini dichia­rano solennemente, e non senza vanto, di essere cristiani di quel cristianesimo che è la religione del cuore. Se però lasciamo da parte parole e dichiarazioni, e cerchiamo di scoprire in che consista, in realtà, questa religione, dovre­mo purtroppo constatare che la gran massa degli uomini è priva di qualsiasi istanza religiosa interiore; che non dà alcuna importanza all’esercizio della fede, della speranza e della carità e neppure alla rettitudine di intenzione, alla purezza dei fini o al controllo dei sentimenti; e che si accon­tenta della pratica, superficiale per giunta, di due o tre virtù. – Saremo costretti ad accorgerci che non si sa che cosa vogliano dire contrizione, penitenza e perdono. Capi­remo essere convinzione generale che, dopo tutto, se un individuo fa il proprio dovere, in conformità alla missione ricevuta, non potrà mancare di raggiungere il Paradiso, per quanto poco abbia fatto di più e per quanto evidenti siano state, in altri campi, le sue debolezze. Secondo una tale mentalità, i doveri del soldato sono la lealtà, l’obbedienza e il coraggio: per il resto le cose vadano come vogliono; il dovere del commerciante è l’onestà, quello dell’artigiano l’operosità e la tenacia, quello dell’uomo di Stato la sana ambizione, quello della donna di casa l’amore al focolare, quello del ministro del culto il decoro e la benevolenza non disgiunti da un certo grado di attività. Siamo, come si vede, in pieno clima farisaico. Manca la consapevolezza del soprannaturale, manca il riconoscimento dei diritti di Dio su di noi, manca la coscienza delle debolezze a cui nessuna creatura può sottrarsi, e non c’è la minima traccia di atti come l’accusa di sé, la confessione del peccato, e la sup­plica per ottenere il perdono. Nulla appare di quei pro­fondi ed elevati sentimenti che formano la caratteristica della religione cristiana e che devono farsi sempre più esi­genti, non sempre più deboli, man mano che il cristiano si eleva dallo stato di semplice obbedienza alla perfezione del santo.

Ci troviamo di fronte alla religione naturale di tutti i tempi e di tutti i popoli, spesso molto appariscente, ma priva dinanzi a Dio di qualsiasi valore. Buona, entro i suoi limiti, essa non ha un autentico significato, e non possiede alcuna via d’uscita, perché fondata sull’autosufficienza umana e indirizzata soltanto ad una soddisfazione egoi­stica. L’io rimane la suprema autorità e gli uomini con­tinuano ad aggirarsi nel piccolo cerchio dei propri pensieri e dei propri giudizi senza preoccuparsi di che cosa Iddio effettivamente dica e senza pensare al pericolo di incorrere nella sua condanna, paghi delle loro personali convinzioni. Incombe quindi su di loro il peso delle terribili parole pro­nunziate non contro un anziano di Israele o un filosofo pa-gano, ma contro una comunità cristiana colpevole, contro i farisei cristiani di Laodicea: « Perché dici – sono ricco e mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla – e non sai che tu sei meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo; ti consiglio a comprar da me oro purgato col fuoco perché tu arricchisca, e vesti bianche perché tu le indossi e non appaia la vergogna della tua nudità, e collirio da ungere i tuoi occhi, perché tu ci veda. Io quanti amò, li riprendo e castigo; abbi dunque zelo e ravvediti » (Ap., 3, 17 ss.).

La nostra incapacità di comprensione, fratelli, la nostra cecità spirituale, la nostra lontananza dalla presenza di Dio, sorgente e criterio di ogni verità, stanno alla radice di que­sta religione sterile, senz’anima, di cui gli uomini vanno comunemente così fieri. Se riuscissimo anche solo un poco a conoscere Iddio e noi stessi, tali quali siamo, mai ci azzar­deremmo a servirlo senza « santo timore » o a rallegrarci in lui senza tremarne. È la rimozione del sipario calato tra i nostri occhi e il cielo, e l’infusione nell’anima della grazia illuminatrice del Nuovo Testamento, che rende la religione cristiana così diversa dalle altre religioni, rituali e filosofiche, diffuse sulla terra. Solo i santi cattolici si con­fessano peccatori, perché essi solo vedono Dio. È il miste­rioso Spirito creatore che fa della vita cristiana una vera adorazione, un vero culto, e trasforma il fariseo orgoglioso nell’umile pubblicano. È la visione di Dio dataci dalla fede, che ci rende umili ai nostri stessi occhi, facendoci sentire il contrasto che esiste tra noi e il Dio in cui ci è dato fis­sare lo sguardo. È la visione di Dio nella sua gloria infinita, di lui che è santità, bellezza e perfezione, che ci fa abbas­sare fino a terra nel disprezzo di noi stessi. Di sé, si può essere soddisfatti solo quando non si conosce Iddio. Perché il codice etico di questo mondo è così preciso e così ben definito? Perché il culto reso dalla ragione è così calmo? Perché il paganesimo dell’antichità classica è così pieno di gioia e le strutture sociali dei popoli antichi così armoniose e ragionevoli? E al contrario, perché tanta emotività, tanto opporsi ed alternarsi di sentimenti, tanta nobiltà e nel me­desimo tempo tanto abbassamento, nella spiritualità cri­stiana? Ecco la risposta: il cristiano e solo il cristiano pos­siede la rivelazione divina. Egli ha impressa nell’intelligen­za, nel cuore, nella coscienza, l’idea dell’unico Essere asso­lutamente libero, eterno, incomunicabile. Egli sa che solo Dio è santo e che le creature sono così deboli in confronto, da scomparire e rimanere annientate alla sua presenza, se Lui stesso non le sostenesse. Egli sa che esiste un Essere la cui grandezza e felicità non sono per nulla toccate dalla presenza o dall’assenza dell’intera creazione, con tutte le sue innumerevoli entità e parti; un Essere sul quale nes­suno può influire, cui nessuno può aggiungere o togliere alcunché; un Essere che era onnipotente prima di creare l’universo e tale è rimasto anche dopo, senza mutamenti nella propria serenità e nella propria felicità. Egli sa che c’è un Essere nelle cui mani sta la nostra beatitudine, la santità, la vita, la speranza e la salvezza di tutti. A lui dobbiamo ogni cosa: davanti a lui non valgono né scuse né compromessi. Per Dio nulla sono le realtà del mondo. Più l’uomo è nobile, più è tenuto ad adorarlo, perché chi è santo, lo è in quanto possiede una più perfetta somi­glianza con Lui.

Questo volle dire san Pietro, quando, comprendendo la grandezza del suo Maestro esclamò, quasi fuori di sé: « Allontanati da me perché sono uomo peccatore » (Lc, 5, 8). Questo volle dire Giobbe, che pure aveva per tanti anni servito il Signore ed era stato tanto virtuoso, quando l’Onnipotente dal turbine gli parlò: « Per ascoltazione d’orecchi avevo udito di te, ma ora l’occhio mio ti vede. Perciò io accuso me stesso, faccio penitenza nella polvere e nella cenere » (Gb., 42, 5 ss.). Così accadde a Isaia, quando ebbe la visione dei Serafini e disse: « Ohimè!, per­ché sono un uomo dalle labbra immonde. Eppure è il Re, Signore degli eserciti che hanno veduto gli occhi miei » (Is., 6, 5). E così accadde anche a Daniele, quando vide l’Angelo mandato da Dio: « Sentii mancarmi il vigore e cambiai di aspetto e rabbrividii, privo affatto di forze » (Dn., 10, 8).

Ecco la ragione per cui ogni credente, qualunque sia il suo grado di grazia, figlio prodigo o santo consumato, deve dire col pubblicano del Vangelo: « O Dio, sii propi­zio a me peccatore ». Ecco la ragione per cui tutte le crea­ture, piccole e grandi, si trovano ad uno stesso livello nei confronti del Creatore: non perché l’una non possa avere ciò che le altre non hanno, ma perché tutte possiedono sol­tanto quello che Dio stesso ha loro concesso, e senza di lui, che è tutto in tutti, non sono nulla.

estratto dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind, 1856 SVO, 2, 15-29