L’eredità di John Henry Newman negli insegnamenti di Giovanni Paolo II

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Prof. Graziano Borgonovo

«Ecco il carisma di Wojtyla: è un Papa affascinato da Dio in ragione dell’uomo e affascinato dall’uomo in ragione di Dio». Così P. Tadeusz Stycze?, suo successore all’Università di Lublino, ha caratterizzato, alcuni anni fa, il cuore della personalità di Giovanni Paolo II, da domenica scorsa, 1° maggio 2011, Domenica della Divina Misericordia, Beato della Chiesa Cattolica. Affascinato da Dio, dunque, in ragione dell’uomo, perché la meraviglia che l’uomo è e suscita non offre da se stessa la sua propria ragione, e affascinato dall’uomo in ragione di Dio, perché solo l’Altro meraviglioso può rendere ragione della meraviglia che l’uomo è e suscita.

John Henry Newman nacque a Londra nel 1801. Nel 1816, all’età dunque di quindici anni, visse quella che egli stesso, molti anni più tardi, nella celebre Apologia pro vita sua, avrebbe definito come la sua “prima conversione”, quella che gli ha permesso – e sono parole sue – di «riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore»[1]. Fu così affascinato dalla realtà di Dio che decise ben presto di rimanere tutto per Lui per restare a disposizione di quel compito – e si trattava di poterlo riconoscere nelle asperità del cammino – per il quale lui, proprio lui, John Henry, era stato creato. «My self and my Creator; io stesso e il mio Creatore». «Riflettendo sul misterioso disegno divino che si dispiegava nella sua vita – scrisse Giovanni Paolo II all’Arcivescovo di Birmingham il 22 gennaio 2001, in concomitanza col secondo centenario della nascita di colui che oggi, dal 19 settembre 2010, è Beato della Chiesa Cattolica -, Newman acquisì un senso profondo e persistente del fatto che “Dio mi ha creato per renderGli un determinato servizio. Mi ha affidato un’opera che non ha affidato a un’altra persona. Io ho la mia missione” (Meditazioni e Devozioni)».

Newman fece insomma fin da giovane l’esperienza che coscienza e verità – possiamo usare fin da subito questi due grandi termini, così a lui tanto familiari – si appartengono, si sostengono e s’illuminano a vicenda, che l’obbedienza alla coscienza conduce all’obbedienza alla verità. La coscienza, attratta dalla verità, fu per Newman la via verso la conoscenza del Dio vivo. «Poche persone hanno sostenuto i pieni diritti della coscienza come ha fatto lui» – scrisse Giovanni Paolo II di John Henry Newman in un’altra lettera indirizzata sempre all’Arcivescovo di Birmingham, in precedenza rispetto a quella già citata, il 18 giugno 1990 nel primo centenario della morte del grande convertito -; «pochi scrittori hanno perorato in modo tanto persuasivo la causa della sua autorità e libertà, eppure egli non ha mai permesso che la minima traccia di soggettività o relativismo inquinasse il suo insegnamento».

Il significato e la dignità della coscienza sono descritti da Newman in modo mirabile, ad esempio, nella Lettera al Duca di Norfolk, del 1875: «La norma e la misura del dovere non sono l’utilità, né la convenienza, né la felicità del maggior numero di persone, né la ragion di Stato, né l’opportunità, né l’ordine o il pulchrum. La coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura, sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti. La coscienza è l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi; e se mai potesse venir meno nella Chiesa l’eterno sacerdozio, nella coscienza rimarrebbe il principio sacerdotale ed essa ne avrebbe il dominio»[2]. Il fascino per Dio in ragione dell’uomo e per l’uomo in ragione di Dio mi pare trovi in questo brano una delle sue insuperabili esemplificazioni.

Vediamo dunque ora, passo dopo passo, parola per parola, vorrei dire – è esattamente l’approccio che ho inteso dare al nostro incontro di questa sera: «L’eredità di J.H. Newman negli insegnamenti di Giovanni Paolo II» -, come Giovanni Paolo II recepì, additandoli a tutti, l’insegnamento e il percorso di vita di John Henry Newman, in lui davvero un tutt’uno, sì da farne un indubbio maestro/testimone da subito da tutti riconosciuto.

1) Verità – La prima parola è senz’altro verità. Nel 1990, oltre alla Lettera del 18 giugno scritta all’Arcivescovo di Birmingham, Giovanni Paolo II si rivolse con un Discorso, il 27 aprile, ai partecipanti al Simposio organizzato dalla Comunità Internazionale “Das Werk” (L’Opera) e dal “Centre of Newman Friends” (Centro degli Amici di Newman), per commemorare il primo centenario della morte del venerabile cardinale inglese. La parola “verità” apre entrambi i testi di Giovanni Paolo II. «Il tema del vostro Simposio “John Henry Newman – Amante della Verità”, sottolinea la ragione principale per cui la vita e gli scritti di Newman continuano ad attirare. La sua è stata una continua ricerca di quella verità, che sola può rendere l’uomo libero (cfr. Gv 8,32)» (Discorso, 27 aprile 1990). «La lunga vita di Newman ce lo mostra come un ardente discepolo della verità…: “Il mio desiderio è stato quello di avere la Verità come amica più cara, e nessun nemico eccetto l’errore” (The Via Media)» (Lettera, 18 giugno 1990). Quello di Newman è stato un «pellegrinaggio verso la verità»: «sin dal momento della sua prima “grazia di conversione”, all’età di quindici anni, non ha mai perso il senso della presenza di Dio, il suo rispetto per la verità rivelata e la sua sete di santità di vita» (Discorso, 27 aprile). «Il desiderio di verità lo ha condotto a cercare una voce che gli parlasse con l’autorità del Cristo vivente», ponendosi così come esempio a ciascuno per «non accontentarsi di una risposta parziale al grande mistero che è l’uomo», e coltivando invece con costanza «l’onestà intellettuale e il coraggio morale di accettare la luce della verità, quali che siano i sacrifici personali che ciò comporti» (Lettera, 18 giugno).

2) Coscienza – La seconda parola è senz’altro coscienza. Se la verità è ciò che precede e stimola il desiderio di colui che conosce e agisce, la coscienza è il «mezzo per acquisire la verità» (Lettera, 18 giugno), da parte di colui che, conoscendo, agisce e, agendo, conosce. Da questo punto di vista si capisce perché «il pellegrinaggio intellettuale e spirituale di Newman è stata la risposta più ardente ad una luce interiore di cui egli sembrava sempre consapevole», quella Luce gentile, che «la coscienza proietta su tutti gli impulsi e gli sforzi della vita» (Discorso, 27 aprile). Nella Lettera Enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, del 6 agosto 1993, Giovanni Paolo II, riferendosi esplicitamente a Newman in un importante passaggio del n. 34 del testo, scrive: «Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. In tal senso il Card. J.H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: “La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri”» (VS, 34). Stante la condizione umana attuale, segnata dalle conseguenze del primo peccato, la coscienza si trova d’altronde di fatto indebolita e la possibilità dell’errore più facilmente s’insinua quanto più «le manca un’assistenza esterna: la coscienza ha bisogno di essere guidata e sostenuta; lasciata a se stessa, anche se, in un primo momento, si esprime secondo verità, tende in seguito a farsi incerta, ambigua e falsa»[3]. Lo splendore della verità, cui è per natura ordinata, le diviene esistenzialmente meno intenso. Due cose perciò necessitano per rendere la coscienza vera, conformemente alla sua natura: un supplemento esterno di luce (la Rivelazione, la Luce gentile) e un’educazione che ne consenta l’accoglienza. Ancora Giovanni Paolo II: «La luce interiore della coscienza mette una persona in contatto con la realtà di un Dio personale. In uno dei suoi libri egli [Newman] scrisse: “La mia natura sente la voce della coscienza come una persona. Quando le obbedisco, mi sento soddisfatto; quando le disobbedisco, provo un’afflizione – proprio come ciò che sento quando accontento o dispiaccio qualche amico caro… Un’eco implica una voce; una voce, qualcuno che parla. È colui che parla che io amo e venero” (Callista, London 1910, pp. 314-315)» (Lettera, 18 giugno). È proprio questa la radice ultima della dignità inviolabile della coscienza: Colui che, attraverso di essa, parla e che, con l’obbedienza alla coscienza, si ritrova ad essere amato.

3) SantitàSantità è la terza parola. Il dramma interiore che segnò la lunga vita di Newman «ruotò intorno alla questione della santità e unione con Cristo. Il suo desiderio più ardente era di conoscere e fare la volontà di Dio. Per questo, in un tempo di intenso travaglio spirituale, prima di ritirarsi a pregare sulla sua decisione di entrare nella Chiesa Cattolica, egli chiese ai suoi parrocchiani di Littlemore: “Ricordatevi di lui nei giorni che verranno, anche se non ne sentirete parlare, e pregate per lui, perché egli sappia discernere in ogni cosa la volontà di Dio, e in ogni momento egli sia pronto a compierla”» (Discorso, 27 aprile 1990).

Nella Lettera all’Arcivescovo di Birmingham di oltre dieci anni successiva, quella del 22 gennaio 2001, Giovanni Paolo II sembra riprendere il medesimo tema della santità dal punto di vista del dolore e della croce (ed è commovente pensare all’analogia con la sua stessa situazione personale, in quel momento già ampiamente segnata anche dalla prova fisica): «Tutte le prove che [Newman] conobbe invece di sminuirlo o distruggerlo paradossalmente confermarono la sua fede nel Dio che lo aveva chiamato e rafforzarono in lui la convinzione che Dio “non fa nulla invano”. Alla fine ciò che risplende in Newman è il mistero della Croce del Signore: fu il centro della sua missione, la verità assoluta che contemplava, la “luce gentile” che lo guidava». E in qualche battuta precedente della medesima lettera, Giovanni Paolo II aveva annotato: «La ricerca di Newman fu segnata dal dolore. Una volta pervenuto al senso incrollabile della missione affidatagli da Dio, dichiarò: “Quindi, Gli crederò… se sono malato, la mia malattia può servirGli; se sono perplesso, la mia perplessità può servirGli… non fa nulla invano… Può allontanare i miei amici. Può gettarmi fra estranei. Può farmi sentire desolato, può far precipitare il mio spirito, può nascondermi il futuro. Tuttavia, Egli sa perché” (Meditazioni e Devozioni)» (Lettera, 22 gennaio 2001).

4) Fede e ragione – La centralità della parola fede (la quarta che con Giovanni Paolo II sottolineiamo) emerge con evidenza da quanto detto sulla santità. E trattandone in rapporto a Newman, è di fondamentale importanza cogliere come Giovanni Paolo II ne tratti sempre in rapporto alla ragione. Fede e ragione, dunque, un binomio inscindibile e vitale. Scrive nella Lettera del 18 giugno 1990: «Seguendo la luce della sua coscienza, Newman ha percorso un itinerario di fede che ha descritto con forza e chiarezza nelle sue opere… Era una sua caratteristica essere fermamente fedele alla verità una volta afferrata, sempre pronto a sviluppare e approfondire la sua comprensione del deposito della fede». E nella Lettera del 22 gennaio 2001: «Newman nacque in un’epoca travagliata non solo politicamente e militarmente, ma anche spiritualmente. Le vecchie certezze vacillavano e i credenti si trovavano di fronte alla minaccia del razionalismo da una parte e del fideismo dall’altra. Il razionalismo portò con sé il rifiuto sia dell’autorità sia della trascendenza, mentre il fideismo distolse le persone dalle sfide della storia e dai compiti terreni per generare in loro una dipendenza insana dall’autorità e dal soprannaturale. In quel mondo Newman giunse veramente a una sintesi eccezionale tra fede e ragione che per lui erano “come due ali sulle quali lo spirito umano raggiunge la contemplazione della verità” (FR, Intr.)». Un equilibrio straordinariamente armonico, dunque, determinato dall’amore appassionato per la verità. Proprio nell’Enciclica Fides et ratio, al n. 74, il Papa addita come primo il nome di John Henry Newman quale emblema del «fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio», manifestato «nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti», avendo evocato, prima dei contemporanei, niente meno che i Padri della Chiesa antica e i grandi Dottori medievali (cfr. FR, 74). Le implicazioni anche di carattere educativo, contenute nelle sottolineature centrali del Discorso del 27 aprile 1990, sono evidenti. «Mi riferisco all’unità che egli [Newman] sosteneva tra la teologia e la scienza, tra il mondo della fede e il mondo della ragione. Egli proponeva che lo studio non mancasse di unità, ma si fondasse su una visione totale». Nel discorso programmatico tenuto all’Università Cattolica di Dublino, nel 1852, J.H. Newman si espresse contro ogni possibile forma di dualismo, allorché si tratti di educazione della persona umana. «Desidero che gli stessi luoghi e le stesse persone siano insieme oracoli di filosofia e santuari di devozione. Non mi soddisfa quel che a molti soddisfa, che ci siano due sistemi indipendenti, uno intellettuale e uno religioso, i quali procedono insieme e a lato, con una specie di divisione di lavoro, e solo incidentalmente si frammischiano. Non mi soddisfa che la religione sia di qua e la scienza sia di là… Voglio che uno stesso tetto contenga insieme la disciplina intellettuale e quella morale… Voglio che un intellettuale laico sia religioso e che un devoto ecclesiastico sia intellettuale»[4]. L’universitas studiorum ebbe nel Medioevo esattamente questo stesso tipo di sguardo pieno sulla persona all’origine del suo costituirsi quale sistema organico di ricerca, comune e accomunante, della verità.

5) Chiesa – È la quinta parola. «Il mistero della Chiesa è sempre stato il grande amore della vita di John Henry Newman». I suoi scritti «delineano un quadro estremamente chiaro del suo incrollabile amore per la Chiesa quale incessante effusione dell’amore di Dio per l’uomo in ogni fase della storia». Dal suo cuore limpido sgorgava in modo naturale una preghiera come la seguente: «”Fa’ che io non dimentichi mai che Tu hai stabilito in terra un regno che è Tuo, che la Chiesa è opera Tua, da Te stabilita, il Tuo strumento; che noi siamo soggetti alle Tue regole, alle Tue leggi, al Tuo sguardo – che quando la Chiesa parla, sei Tu che parli. Fa’ che la conoscenza di questa meravigliosa verità non mi renda insensibile nei suoi confronti – fa’ che la debolezza dei Tuoi umani rappresentanti non mi faccia dimenticare che sei Tu che parli e agisci attraverso di loro”» (Discorso del 27 aprile 1990). Per questo suo amore personale pieno per la Chiesa, per l’unica Chiesa di Cristo – e faccio qui un semplice cenno, che ora non sviluppo -, «con la sua persona e con il suo lavoro, il cardinale Newman illumina il cammino ecumenico che intraprendiamo in obbedienza alla volontà di Cristo (cfr. Gv 17,21)» (Lettera del 18 giugno 1990). Poiché l’Autore della natura è anche l’Autore della grazia e poiché la Rivelazione porta a compimento definitivo ciò che la natura ha cominciato, «il cristianesimo ha un aspetto esteriore e un altro interiore; esso è umano al di fuori e divino di dentro… Quando Dio nella sua Provvidenza vuole rivelarsi a qualcuno, non ricomincia tutto da capo, ma utilizza il sistema che già esiste. Non invia visibilmente un angelo, ma delega o ispira uno dei nostri fratelli umani. Se vuole benedirci, per esempio, fa di un uomo un Suo sacerdote… Il regno di Cristo, benché non sia di questo mondo, si trova tuttavia in questo mondo ed ha una forma visibile, materiale, sociale. Si compone di uomini e si è sviluppato secondo le leggi che regolano lo sviluppo delle associazioni umane»[5].

Proprio la ferma certezza della necessaria visibilità della Chiesa, dispensatrice dei Sacramenti, canali attraverso i quali la Grazia invisibile si comunica, e il saldo attaccamento-fin dall’età di quindici anni[6]-al principio del dogma, contro le tendenze agnostiche del liberalismo, hanno permesso a Newman di percorrere dall’interno della vita della Chiesa il cammino verso il cattolicesimo, fino a non più contrapporre Chiesa-Corpo di Cristo e Chiesa-istituzione. Sia sul piano delle definizioni dottrinali solenni, sia nell’esercizio ordinario della vita cristiana, occorre infatti un’autorità oggettiva perché la verità di fede (con la norma di comportamento che ne consegue) sia preservata da qualsiasi alterazione soggettivistica. «Solo l’autorità, solo cioè un giudizio riconosciuto come superiore al proprio, può produrre una persuasione generale in materia di condotta, dal momento che è la verità stessa ad essere in gioco. Se il cristianesimo è contemporaneamente sociale e dogmatico e se è destinato agli uomini di tutti i secoli, deve, umanamente parlando, avere un interprete infallibile»[7].

6) CCC – È allora senz’altro opportuno, ed esattamente in questa tappa del percorso attorno a cui ruota la nostra riflessione e che stiamo assieme svolgendo, riferirci alla presenza di John Henry Newman nel Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato da Giovanni Paolo II con la Costituzione apostolica Fidei depositum dell’11 ottobre 1992. Compaiono in esso quattro citazioni dell’odierno Beato inglese, di fatto l’unico Autore contemporaneo citato nel Catechismo a non essere (ancora) santo e, all’epoca, nel 1992, neppure beato.

a) Un primo riferimento lo incontriamo al n. 157 – nella Parte prima del Catechismo, dal titolo «La professione della fede» -, dove si tratta, appunto, della fede e dove appaiono, in concomitanza, nella spiegazione, due altri termini tra quelli che già abbiamo considerato in precedenza, vale a dire, verità e ragione. Ecco il testo: «La fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire. Indubbiamente, le verità rivelate possono sembrare oscure alla ragione e all’esperienza umana, ma “la certezza data dalla luce divina è più grande di quella offerta dalla luce della ragione naturale” (San Tommaso). “Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio”» (J.H. Newman, Apologia pro vita sua). Espressione lapidaria, divenuta, per la sua chiarezza sintetica nel distinguere tra difficoltà e dubbio, pressoché proverbiale.

b) Le altre tre citazioni di Newman sono contenute nella terza parte del CCC – «La vita in Cristo» -, due nella sezione prima – «La vocazione dell’uomo: la vita nello Spirito» -, ai nn. 1723 e 1778, e una terza, l’ultima, nella sezione seconda – «I dieci Comandamenti» -, al n. 2144. Procediamo dunque con ordine. Il contesto del n. 1723 evoca il desiderio naturale di felicità e la risposta offerta dalla beatitudine cristiana. Il passaggio riferito di Newman è tratto da un suo Discorso sulla santità. Eccolo: «[…] “La ricchezza è la grande divinità del presente; alla ricchezza la moltitudine, tutta la massa degli uomini, tributa un omaggio istintivo. Per gli uomini il metro della felicità è la fortuna, e la fortuna è il metro dell’onorabilità… Tutto ciò deriva dalla convinzione che in forza della ricchezza tutto è possibile. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo, e un altro idolo è la notorietà… La notorietà, il fatto di essere conosciuti e di far parlare di sé nel mondo (ciò che si potrebbe chiamare fama da stampa), ha finito per essere considerata un bene in se stessa, un bene sommo, un oggetto, anch’essa, di vera venerazione”». Spesso, leggendo Newman, si ricava l’impressione che le sue parole sia state scritte non più tardi di questa mattina… E qui, il Catechismo, le pone evidentemente come contrappunto rispetto a ciò che la felicità, dunque la beatitudine, dunque la santità, effettivamente sono.

c) È a proposito della coscienza morale – e non poteva essere diversamente – che incontriamo ancora chiamato in causa John Henry Newman nel CCC. Al n. 1778, dopo averne fornito la definizione: «La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto», e dopo aver aggiunto che, «in tutto quello che dice e fa, l’uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto e retto», perché «è attraverso il giudizio della propria coscienza che l’uomo percepisce e riconosce i precetti della Legge divina», ecco affidata a Newman la folgorante sintesi conclusiva: «la coscienza “è una legge del nostro spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini, che indica responsabilità e dovere, timore e speranza… Essa è la messaggera di colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida. La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo”» (Lettera al Duca di Norfolk).

d) L’ultimo passaggio del CCC in cui fa capolino la sapienza del grande convertito inglese è al n. 2144. Si riferisce al contenuto del secondo comandamento – «Non nominare il nome di Dio invano» – e, in particolare, al rispetto dovuto al Nome di Dio come espressione del rispetto dovuto al suo stesso Mistero e a tutta la realtà sacra, che tale Nome e tale Mistero evocano. Si chiede retoricamente Newman: «Il sentimento di timore e il sentimento del sacro sono sentimenti cristiani o no? Nessuno può ragionevolmente dubitarne. Sono i sentimenti che palpiterebbero in noi, e con forte intensità, se avessimo la visione della Maestà di Dio. Sono i sentimenti che proveremmo se ci rendessimo conto della sua presenza. Nella misura in cui crediamo che Dio è presente, dobbiamo avvertirli. Se non li avvertiamo, è perché non percepiamo, non crediamo che egli è presente» (Sermoni parrocchiali). Della «visione della Maestà di Dio» non godiamo quaggiù ancora, essendo proprio tale visione, tale compagnia permanente e indefettibile, il contenuto della beatitudine eterna. Nella misura in cui però «crediamo che Egli è presente» – e la Presenza di Dio agli uomini è Gesù Cristo -, tanto più il santo timore di Dio e il senso del sacro si ridesteranno negli uomini. Fede e ragione sono dunque amiche, sono – riecheggiando nuovamente Giovanni Paolo II – le due ali per la contemplazione della verità.

7) Conclusione – Ci avviciniamo ora alla conclusione, che articolo in tre momenti successivi. a) Scrive Giovanni Paolo II nella Lettera del 22 gennaio 2001 all’Arcivescovo di Birmingham: «Fu la contemplazione appassionata della verità a condurlo a un’accettazione liberatoria dell’autorità le cui radici sono in Cristo, e a un senso del soprannaturale che apre la mente e il cuore umani a una vasta gamma di possibilità rivelate in Cristo. “Illumina gentilmente l’oscurità, guidami”, scrisse Newman ne “La Nuvola della non Conoscenza”. Per lui Cristo era la luce al centro di qualsiasi oscurità. Per la sua tomba scelse la seguente epigrafe: Ex umbris et imaginibus in veritatem; era chiaro che alla fine del suo viaggio terreno fosse Cristo la verità che aveva trovato».

b) Dalla Luce gentile, Newman si lasciò costantemente guidare nel corso della sua vita, dalla “prima conversione” – avvenuta nel 1816, all’età di quindici anni, l’ho ricordato all’inizio del nostro incontro -, passando attraverso l’adesione al cattolicesimo nel 1845, e così di seguito, fino al termine dei suoi lunghi giorni terreni, nel 1890. Nel 1833, di ritorno da un viaggio in Sicilia, in una delle fasi cruciali che hanno ritmato il suo travaglio interiore, compose una poesia, divenuta celeberrima: Lead, kindly LightGuidami Tu, Luce gentile, appunto. Vale la pena ascoltarla per intero. È un testo commovente e possiede tutta l’intensità di una grande preghiera. «Guidami Tu, Luce gentile, / attraverso il buio che mi circonda, / sii Tu a condurmi! / La notte è oscura e sono lontano da casa, / sii Tu a condurmi! / Sostieni i miei piedi vacillanti: / io non chiedo di vedere ciò che mi attende all’orizzonte, / un passo solo mi sarà sufficiente. / Non mi sono mai sentito come mi sento ora, / né ho pregato che fossi Tu a condurmi. / Amavo scegliere e scrutare il mio cammino; / ma ora sii Tu a condurmi! / Amavo il giorno abbagliante, e malgrado la paura, / il mio cuore era schiavo dell’orgoglio; / non ricordare gli anni ormai passati. / Così a lungo la tua forza mi ha benedetto, / e certo mi condurrà ancora, / landa dopo landa, palude dopo palude, / oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà; / e con l’apparire del mattino / rivedrò il sorriso di quei volti angelici / che da tanto tempo amo / e per poco avevo perduto».

c) Quando nel 1879 John Henry Newman ricevette la porpora cardinalizia dalle mani di Papa Leone XIII, adottò come motto per il suo stemma “Cor ad cor loquitur“, “il cuore parla al cuore”. Abbiamo trattato questa sera dell’eredità di John Henry Newman negli insegnamenti del Beato Giovanni Paolo II. L’ultima parola la lasciamo ora a Benedetto XVI. Celebrandone la Santa Messa di beatificazione al Cofton Park di Rednal/Birmingham, lo scorso 19 settembre 2010, il Papa così ha spiegato il cor ad cor loquitur del grande figlio della nazione inglese: «Il motto del Cardinale Newman, Cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”, ci permette di penetrare nella sua comprensione della vita cristiana come chiamata alla santità, sperimentata come l’intenso desiderio del cuore umano di entrare in intima comunione con il Cuore di Dio». È il desiderio più profondo della nostra povera/grande natura umana; Dio vi ha risposto al di là di ogni prevedibile attesa, in Colui che, Dio eterno come il Padre e come lo Spirito, la nostra povera natura umana l’ha veramente assunta, divenendo perciò – e sono ancora parole di Benedetto XVI pronunciate durante la Messa di beatificazione di John Henry Newman – «l’unico vero Maestro, il quale soltanto ha il diritto alla nostra devozione incondizionata (cfr. Mt 23,10)». «Newman ci rammenta che, quali uomini e donne creati a immagine e somiglianza di Dio – e qui Benedetto XVI si trovava a Londra in Hyde Park, sabato 18 settembre 2010, durante la veglia di preghiera prima della beatificazione -, siamo stati creati per conoscere la verità, per trovare in essa la nostra definitiva libertà e l’adempimento delle più profonde aspirazioni umane. In una parola, siamo stati pensati per conoscere Cristo, che è Lui stesso “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6)».

Conferenza tenuta a Monza il 6 maggio 2011


[1] J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Milano 2001, pp. 137-138.

[2] J.H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk. Coscienza e libertà, Milano 1999, pp. 219-220.

[3] J.H. Newman, Discourses addressed to Mixed Congregations, London 1929, p. 83.

[4] Cfr. G. De Luca (ed.), John Henry Newman. Scritti d’occasione e traduzioni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1975, p. 200.

[5]  J.H. Newman, Essays critical and historical, London 18856, pp. 188, 194, 196.

[6] Cfr. J.H. Newman, Apologia pro vita sua, cit., p. 4.

[7] J.H. Newman, An essay on the Development of Christian Doctrine, cit., p. 90.