Seconda Primavera

postato in: Sermoni | 0

Sermone predicato nella chiesa di Santa Maria, ad Oscott, il 13 luglio 1852.

In occasione dell’instaurazione della gerarchia cattolica in Inghilterra

Securge, propera, amica mea, comba mea, formosa mea, et veni.

Jam enim hiems transiti, imber àbiti et recessti. Flores apparuerunt in terra nostra.

Sorgi, affrettati, amor mio, colomba mia, mia unica bella, e vieni.

Poiché l’inverno è ora passato, la pioggia è cessata e andata. I fiori sono comparsi nella nostra terra.

(Cant 2, 10-12)

Noi, in quotidiana familiarità, sperimentiamo l’ordine, la costanza, il rinnovamento perpetuo del mondo materiale che ci sta intorno. Per fragile e fugace che ne sia ogni parte, per turbolenti e migranti che ne siano gli elementi, per incessabili che ne siano le mutazioni, esso resi­ste. È collegato insieme da una legge di stabilità, si tiene su sempre in unità; sempre sul punto di morire, è sempre sul punto di tornare in vita. La dissoluzione non serve che a dar vita a modi più nuovi di orga­nizzazione, e una sola morte è madre di mille vite. Ogni ora, così come viene, attesta quanto è fuggevole, e insieme quanto è sicuro, quanto è certo il gran tutto. Come un’immagine sulle acque: sempre la stessa, sulle acque sempre scorrenti. Cambiamenti su cambiamenti-ma un cambiamento grida all’altro, così come si alternano i Serafini a lode e a gloria del Creatore. Il sole tramonta per poi sorgere di nuovo; il giorno è inghiottito dalle tenebre della notte per poi venirne nuovamente fuori, così nuovo come se mai non vi si fosse disfatto. La primavera passa nell’estate, e attraverso l’estate e l’autunno passa nell’inverno, sol per trionfare con maggior sicurezza con un suo ritorno da ultimo su quella tomba, verso la quale sin dalla sua prima ora si era affrettata riso­lutamente. Noi gemiamo in lutto su i fiori di maggio, perché debbono sfiorire; sappiamo d’altronde, che maggio avrà un giorno la sua rivinci­ta su novembre, per la rivoluzione di quel solenne circolo che mai non si arresta-e che c’insegna nel colmo della speranza a essere sempre so­bri, nel profondo della desolazione a mai disperare.

Per intensa che sia l’impressione su di noi di codesto fatto, non me­no intenso è il contrasto che si nota tra questo mondo materiale, tanto vigoroso, tanto riproduttivo, pur con tutte le sue mutazioni, e il mondo morale così debole, così traballante, così privo di risorse, pur con tutte le sue aspirazioni. Quel che dovrebbe finire nel nulla, resiste; quel che promette un futuro, disillude e non è più. Il medesimo sole risplende nei cieli dal principio alla fine, e il firmamento azzurro, le eterne mon­tagne ne riflettono i raggi; ma dove è sulla terra il campione, l’eroe, il legislatore, il capo politico, la razza sovrana, che sia stata grande trecen­to anni fa e sia grande ora? Moralisti e poeti tante variazioni hanno scritto su questa vitalità innata della materia, su questa innata caduci­tà della mente. L’uomo sorge per cadere: egli è portato alla dissoluzione dal momento in cui comincia a essere; egli sopravvive, è vero, nei suoi figli, egli sopravvive nel suo nome, egli non sopravvive nella propria persona. Nelle manifestazioni della sua natura quaggiù, è come una bol­la di sapone che si rompe, è come acqua versata per terra. Era giovane, ora è vecchio, e non sarà mai giovane di nuovo. Questo è il lamento su di lui, detto in verso e in prosa, da cristiani e da pagani. Opera la più grande nelle mani di Dio sotto il sole, egli, in tutte le manifestazioni del suo essere complesso, è nato soltanto per morire.

La sua struttura corporea è la prima a risentire il potere di questa legge che lo costringe, benché sia l’ultima a soccombervi. Guardiamo con interesse unito a pietà lo splendore della giovinezza; e più essa è grazio­sa e dolce, tanto più grande è la pietà; poiché con tutta la sua eccellen­za e la sua gloria, ben presto comincia a deformarsi e disonorarsi per l’intensità stessa del suo continuare a vivere. Avanza verso l’inaridimen­to e il collasso finché alla fine si strugge in quella polvere dalla quale fu presa in origine.

Lo stesso è per il nostro essere morale, porzione ben più alta e di­vina della nostra costituzione naturale; incomincia con la vita, finisce con quel che è peggiore della semplice perdita della vita, con una morte viva. Come è bello il cuore umano quando mette su le prime foglie, e si apre e si rallegra nella sua primavera. Per quanto bella possa essere la forma corporea, la virtù naturale è di gran lunga più bella, con il suo fogliame verde e i suoi ridenti fiori. Essa fiorisce nel giovane, simile a un ricco fiore, tanto delicato, fragrante e abbagliante. La generosità e lievezza di cuore e amabilità, l’ingegno confidente, il carattere gentile, l’allegrezza elastica, la mano aperta, l’affezione pura, l’aspirazione nobi­le, la risoluzione eroica, l’impegno romantico, l’amore nel quale non ha parte il proprio io-non è bello tutto codesto? e non sono cose ritratte e adornate, appunto perché le si ammiri nelle loro forme migliori, in fa­vole e in poesie? e oh quale speranza di bene vi si racchiude! eppure, chi crederebbe che debbono svanire! eppure, come la notte sussegue al giorno, come la decrepitezza sussegue alla salute, con altrettanta certez­za la decadenza, il disfacimento e la distruzione sono la conseguenza di questa virtù naturale, soltanto che si lasci al tempo di fare il suo corso. Ci sono uomini che sono spezzati nel primo sbocciare di questa eccellenza, e allora, se dobbiamo credere ai loro epitaffi, sono vissuti come angeli; ma aspettate un po’, fateli vivere, lasciate che il corso della vita proce­da, lasciate che la lucente anima passi attraverso il fuoco e l’acqua delle tentazioni, seduzioni, corruzioni e trasformazioni del mondo; ahimè che insufficienza nella natura! che impotenza a perseverare, che ostinatezza in deludere la propria promessa! Aspettate che di giovane diventi gran­de e non sarà più diversa la miniatura che ne abbiamo da ragazzo, quan­do ogni lineamento parlava di speranza, paragonata al largo ritratto di­pinto in suo onore da vecchio, con le membra raggrinzite, l’occhio vela­to, la fronte corrugata, e i capelli grigi, più di quanto differisca la grazia morale di quell’infanzia dall’aspetto scostante e ripugnante della sua ani­ma, ora che egli è vissuto fino all’età di uomo. Umore bisbetico, misan­tropia, egoismo sono l’inverno ordinario di quella primavera.

Tale è l’uomo nella propria natura, e tale è anche nelle sue opere. I più nobili sforzi del suo genio, le conquiste fatte, le dottrine da lui scaturite, le nazioni da lui incivilite, gli Stati da lui creati, a lui soprav­vivono, gli sopravvivono di molti secoli, ma tendono a una fine, e que­sta fine è la dissoluzione. Poteri del mondo, sovranità, dinastie, prima o dopo cadono nel nulla; hanno la loro ora fatale. U conquistatore roma­no versò lagrime su Cartagine, poiché nella distruzione della città nemi­ca egli scorgeva troppo chiaro un pronostico della caduta di Roma; alla fine, sotto il peso, le responsabilità, i delitti e le glorie di secoli su se­coli, la città imperiale cadde.

Così l’uomo, così tutte le sue opere sono mortali; muoiono, e non hanno potere di rinnovarsi.

Ma che cosa, padri miei e fratelli miei, che cosa è successo proprio ora in Inghilterra? Qualcosa di strano sta passando sopra questo Paese, anche solo a giudicare dalla sorpresa, dalla commozione che suscita. Se noi non fossimo troppo vicini al campo d’azione per poter dire che suc­cede, se fossimo gli abitanti di un pianeta contiguo, il quale possedesse un meccanismo più perfetto di quelli scoperti qui in terra, sì da poter osservare gli avvenimenti di un altro globo-e di là ci voltassimo a guardare l’Inghilterra, proprio nella presente stagione, noi saremmo col­piti da un fenomeno politico non meno meraviglioso d’un qualsiasi fe­nomeno che l’astronomo registra dal suo campo fisico di osservazione. Sarebbe l’occorrenza di una commozione nazionale, quasi senza l’uguale, più violenta di qualsiasi altra verificatasi qui durante centinaia di anni- per lo meno nel giudizio e nelle intenzioni degli uomini se non in atto e in fatto. Dovremmo registrare che subito dopo il giorno di san Michele, nel 1850, si levò nel mondo una tempesta, tanto furiosa da richie­dere una grande spiegazione, e da sollevare in noi un desiderio intenso di ottenere questa spiegazione. Dovremmo vederla crescere di giorno in giorno, espandersi di luogo in luogo, senza remissione, quasi senza re­spiro, fino a quest’ora, quando forse essa minaccia ancor peggio, o alme­no non lascia nessuna sicura speranza di attenuarsi. Ogni partito nel cor­po politico subisce la sua influenza-dalla Regina sul suo trono fino ai bambini dell’asilo e delle scuole-. I diecimila elettori, la totalità delle sette protestanti, la massa delle società e associazioni religiose, il gran corpo del clero « stabilito » in città e in campagna, il foro, e persino la professione medica, anzi persino i circoli letterari e scientifici, ogni clas­se, ogni interesse, ogni focolare, dà segno di questa tempesta onnipre­sente. Sarebbe questo il nostro resoconto, vedendola da lontano, e me­diteremmo sulla causa. Di che cosa si tratta? contro che cosa è diretta? quale miracolo si è avverato sulla terra? quale avvenimento prodigioso, preternaturale è proporzionato al peso di un affetto tanto vasto?

Dovremmo giudicare con giustezza, data la nostra curiosità, un fe­nomeno simile; deve essere un avvenimento portentoso e lo è. È un’in­novazione, direi, è un miracolo, nello svolgersi degli avvenimenti uma­ni. Il mondo fisico si ripete anno per anno, e sempre ricomincia; ma l’or­dine politico delle cose non si rinnova, non ritorna; continua, ma avan­za; non vi è indietreggiamento. Gli uomini di oggi questo l’hanno ca­pito tanto bene che per loro il progresso è idolatrato quasi fosse un altro nome del bene. Il passato non ritorna mai-non è mai buono;-se noi dobbiamo sfuggire ai mali esistenti, noi lo faremo andando innan­zi. Il passato è inattuale; il passato è morto. Tanto può ritornare il pas­sato, quanto può un morto vivere per noi, quanto un morto può esserci di vantaggio. Ecco la causa dunque di tanto trasporto nazionale, di tanto grido nazionale che ci si leva intorno: il passato è ritornato, il morto vive. I troni vengono capovolti, e non sono mai ristabiliti; gli Stati vi­vono e muoiono e poi servono soltanto per la storia. Babilonia fu gran­de, e Tiro, e l’Egitto, e Ninive, e non saranno mai più grandi. La Chiesa Inglese visse e la Chiesa Inglese non visse più e la Chiesa Inglese vive ancora una volta. Ecco il portento degno di grido. È l’entrata di una se­conda primavera; è un rinnovamento nel mondo morale, simile a quel­lo che si verifica annualmente nel mondo fisico.

Sono tre secoli, e la Chiesa Cattolica, questa grande creazione della potenza di Dio, aveva nella nostra terra un posto di supremazia. Ad essa andarono gli onori di un migliaio di anni all’incirca; troneggiava su una ventina di Sedi su e giù per il vasto Paese; ebbe le sue fondamenta nel volere di un popolo fedele; infuse energia con diecimila strumenti di potenza e di efficacia; fu nobilitata da un esercito di santi e di martiri. Le Chiese, a una a una, raccontavano e festeggiavano la schiera di inter­cessori glorificati, i quali formavano l’oggetto rispettivo del loro grato omaggio. La sola Canterbury ne numerava forse un sedici: da sant’Agostino a san Dunstano e sant’Elphege, da sant’Anselmo a san Tommaso sino a sant’Edmondo. York ebbe il suo san Paolino, san Giovanni, san Vilfrido e san Guglielmo; Londra ebbe il suo san Erconwald; Durham ebbe il suo san Cuthbert; Winton, il suo san Swithun. Poi ci furono sant’Aidano di Lindisfarne, e sant’Ugo di Lincoln, e san Chad di Lichfield, e san Tommaso di Hereford, e sant’Osvaldo e san Wulstan di Worcester, e sant’Osmund di Salisbury e san Birinus di Dorchester, e san Riccardo di Chichester. E poi, ancora, i suoi ordini religiosi, le sue istituzioni monastiche, le sue università, le sue relazioni estese per tutta l’Europa, le sue alte prerogative nella condizione temporale, la sua ric­chezza, i suoi legami, i suoi onori popolari-dove era in tutta la cristia­nità una gerarchia più gloriosa? Associata a istituzioni civili, in con­tatto con re e nobili, con il popolo, la si trovava in ogni villaggio e in ogni città-sembrava destinata a durare fin quando sarebbe durata l’Inghilterra, e a sopravvivere, forse, alla grandezza dell’Inghilterra.

Ma l’alto decreto del cielo fu che la maestà di quella presenza ve­nisse cancellata. È una storia lunga, padri e fratelli miei-voi lo sapete bene. Non c’è bisogno che io la rimescoli. Il principio vivificante della verità, l’ombra di san Pietro, la grazia del Redentore l’abbandonarono. Quella vecchia Chiesa, arrivato il suo giorno, divenne un cadavere (cam­biamento meraviglioso, orribile!) e non fece che corrompere l’aria un tempo da essa rinfrescata, e ingombrava il suolo un tempo da essa ab­bellito. Così tutto sembrava perduto; e per un certo periodo vi fu una lotta, e poi i suoi preti furono espulsi o martirizzati. Ci furono innume­revoli sacrilegi. I suoi templi furono profanati o distrutti; le sue en­trate” furono sequestrate da nobili avidi, o dissipate tra ministri di una nuova fede. Alla fine la presenza del Cattolicesimo fu semplicemente fat­ta sparire-la sua grazia fu negata-il suo potere disprezzato-in ulti­mo il suo nome divenne quasi sconosciuto, tranne per quel che riguar­dava la storia. Ci volle molto tempo prima che tutto ciò fosse fatto completamente; molto tempo, molta riflessione, molta fatica, molta spe­sa; ma alla fine ci si riuscì. Oh giornata spregevole, secoli prima della nostra nascita! Che martirio vivere allora e vedere la bella forma della verità, sia morale che materiale, tagliuzzata a pezzi, e ogni membro, ogni organo portato via, e bruciato nel fuoco o gettato nell’oceano! Ma alla fine l’opera era compiuta. Si sbrigarono della Verità, e fu tolta via con la pala; e regnò la calma, il silenzio e una specie di, pace; -tale all’in-circa lo stato di cose, quando noi nascemmo in questo mondo stanco.

Padri e fratelli miei, voi l’avete visto da un lato e alcun di noi l’han­no visto da un altro, ma tutti senza eccezione possono testimoniare il disprezzo totale nel quale era caduto il Cattolicesimo all’epoca della nostra nascita; voi, ahimè, lo sapete di gran lunga meglio di quanto pos­sa saperlo io; ma non sarà fuori posto, se con uno o due esempi, quasi segni di matita, darò una prova esterna di quel che voi potete provare tanto più sinceramente dall’interno. Non più Chiesa cattolica nel paese; anzi non più, direi, nemmeno una comunità cattolica: soltanto pochi aderenti alla Vecchia Religione, agguantisi qua e là in silenzio e abbat­tuti, quasi ricordi di quel che era stato. « I Cattolici Romani »;-non una setta, e nemmeno un interesse, per l’idea che ne avevano gli uomi­ni-non un corpo, per quanto piccolo, rappresentativo della grande Co­munione all’estero, ma solo un pugno di individui, i quali si potevano contare, come i ciottoli e i detriti del famoso diluvio, e i quali, certa­mente, conservarono sol per caso un credo che a suo tempo era davvero la professione di una Chiesa. Qui un gruppo di poveri Irlandesi, che vanno e vengono al tempo della mietitura, o una colonia di essi allog­giati in un misero quartiere della vasta metropoli. Là, forse, una persona d’età, veduta per istrada, grave, solitaria e strana, sebbene nobile nel portamento, della quale si diceva che è di buona famiglia ed è un « Cattolico Romano ». Una casa antica, dall’aspetto tetro, racchiusa tra alte mura, con un cancello di ferro e fra tassi, e la voce corrente che ivi vivessero « Cattolici Romani »; ma chi essi fossero, che cosa faces­sero o che cosa si intendeva dire chiamandoli Cattolici Romani, nessu­no sapeva dirlo;-aveva, per altro, un suono spiacevole e sentiva di for­malità e di superstizione. Eppoi, forse, nel nostro girovagare, guardan­do con curiosi occhi di bambini qua e là per la grande città, potemmo imbatterci oggi in una cappella Morava o in una casa di riunione dei Quaccheri, domani in una cappella dei « Cattolici Romani »: di questa altro non si raccapezzava se non che dentro vi erano luci accese, e ra­gazzi in bianco che agitavano incensieri; e tutto quel che voleva dire lo si poteva apprendere solo da libri, da storie, e da sermoni protestanti, che non parlavano bene dei « Cattolici Romani »; al contrario attestava­no che essi ebbero una volta il potere e ne abusarono. Inoltre, ancora, potemmo forse aver sentito, occasionalmente, precisate da un qualche letterato, con acutezza e quale risultato della sua attenta ricerca, e qua­si un punto recondito d’informazione, noto a pochissimi, che tra i Cat­tolici Romani d’Inghilterra e i Cattolici Romani d’Irlanda la differenza consisteva nel fatto che questi ultimi avevano dei vescovi e i primi erano governati da quattro funzionari chiamati Vicari Apostolici.

Tale all’incirca la specie di conoscenza della Cristianità che possede­vano i pagani dei vecchi tempi, i quali scacciavano i suoi aderenti dalla faccia della terra e intanto li chiamavano una gens lucifuga, gente che evitava la luce del giorno. Tali erano i Cattolici in Inghilterra; si trova­vano negli angoli, e nei vicoli, e nelle cantine, e nelle soffitte o nei re­cessi della campagna; tagliati fuori dal popolato mondo che li circonda­va, e appena intravisti-quasi attraverso una nebbia o nel crepuscolo, simili a spiriti qua e là aleggianti,-dagli alti protestanti, signori della terra. Alla fine divennero tanto deboli, così totalmente disprezzati, che il disprezzo fece nascere la pietà; e in realtà i più generosi dei loro ti­ranni cominciarono a desiderare di accordar loro dei favori, sapendo che le loro opinioni erano semplicemente troppo assurde per spandersi nuo­vamente, e che essi, non appena si fossero innalzati a un’importanza ci­vile, le avrebbero disimparate e se ne sarebbero vergognati. E così, per pura gentilezza verso di loro, incominciarono ad avvilire le nostre dot­trine di fronte al mondo protestante, di modo che la nostra stessa idio­zia o la nostra segreta incredulità potesse esserci d’arringa per ottener grazia.

Grande cambiamento, terribile contrasto tra la Chiesa di sant’Agostino e di san Tommaso onorata nei tempi, e ciò che resta dei loro figli al principio del XIX secolo. Fu un miracolo, posso ben dirlo, rovesciare quell’altera potenza; ma un miracolo più grande e più autentico era in serbo. Nessuno avrebbe potuto profetarne la caduta, ma ancor meno qualcuno si sarebbe avventurato a profetarne la nuova ascesa. La cadu­ta fu meravigliosa; pure, dopo tutto, era nell’ordine di natura;-tutte le cose finiscono nel nulla; la nuova ascesa avrebbe suscitato una ben diversa meraviglia, poiché è nell’ordine della grazia-e chi può sperare nei miracoli, e in un miracolo pari a questo, per giunta? L’intero corso della storia ha qualcosa di simile da mostrare? Bisogna che io parli con cautela e secondo quel che so, ma non ricordo niente di simile. In veri­tà Agostino giunse all’isola stessa dove erano già venuti i primitivi mis­sionari; ma questi eran venuti per i Brettoni, egli veniva per i Sassoni. Anche i Goti e i Longobardi ariani abbandonarono, all’epoca di sant’Agostino, l’eresia- e si ricongiunsero con la Chiesa; ma essi non avevano mai apostatato. La parola ispirata sembra implicare una quasi impossi­bilità di quella grazia che è il rinnovamento per coloro i quali di nuovo a se stessi hanno crocifisso e si son posto sotto i piedi il Figlio di Dio. Chi dunque avrebbe osato sperare che da una nazione sacrilega quanto questa si sarebbe di nuovo formato un popolo per il suo Salvatore? Che segno aveva essa mostrato, per essere prescelta fra le nazioni? Se lo si fosse vaticinato una cinquantina di anni fa, solo a dirlo non sarebbe sembrato assurdo e pazzesco?

Padri miei, vi fu nel vostro ordine stesso un uomo, allora nel pieno delle sue forze e della sua reputazione. Il suo nome è proprietà di que­sta diocesi; pur tuttavia è troppo grande, troppo venerabile, troppo ca­ro a tutti i Cattolici perché lo si possa confinare a una parte qualsiasi d’Inghilterra, quando è piuttosto un vocabolo di famiglia in bocca a tutti noi. Quali sarebbero stati i sentimenti di quell’uomo venerabile, cam­pione dell’arca di Dio in un tempo malvagio, se lui fosse vissuto sino a poter vedere questo giorno? È quasi presuntuoso per uno che non lo conobbe, tracciare il ritratto di lui, dei suoi pensieri e dei suoi amici, alcuni dei quali sono persino qui presenti; ma mi sbaglio se immagino che un giorno simile a questo nel quale ci troviamo noi, gli sarebbe ap­parso come un sogno, o che, se ne avesse fatta la profezia ai suoi ascol­tatori, altro non sarebbe sembrata che una burla? Si dice che una volta, rapito in estasi, egli giunse a vedere il futuro; i suoi occhi mortali ave­vano vagato tra quell’umile cappella laggiù nella valle, appartenuta per secoli ai cattolici, e l’altura confinante, allora selvaggia e solitaria. E a quelli intorno avrebbe detto: « Io vedo un arido monte, prospiciente un’aperta campagna, sopra e contro quell’immensa città, gli abitanti del­la quale tengono in tanto poco conto il Cattolicesimo. Vedo il terreno delimitato e vi si fa un’ampia cinta; e vi sorgono piantagioni, che vestono e recingono tra loro lo spazio.

« E lì, su quell’alto luogo, lungi dai ritrovi degli uomini, eppur pro­prio nel centro dell’isola, un vasto edificio appare, o piuttosto un agglo­merato di edifici, dalle molte facciate e cortili è lunghi chiostri e corri­doi e piani su piani. E si innalza sotto l’invocazione dello stesso dolce e potente nome il quale è stato la nostra forza e il nostro conforto nella valle. Guardo più attentamente quell’edificio e vedo che è costruito se­condo quell’antico stile d’arte che ci restituisce il passato, il quale pareva che dovesse scomparire dalla faccia della terra, o fosse conservato solo a titolo di curiosità o fosse limitato solo come una fantasia. Porgo l’o­recchio e sento un suono di voci, gravi e musicali, che fa rivivere l’anti­ca melodia, con cui Agostino diede il benvenuto a Etelberto all’aria aperta sul lido del Kent. Questo suono viene da una lunga processione e si avvolge per i chiostri. Preti e religiosi, teologi delle scuole e cano­nici della cattedrale, camminano nelle debite precedenze. E poi viene la visione di dodici o forse più volti mitrati: da ultimo vedo un Principe della Chiesa nel costume reale di imperio e di martirio, garanzia a noi da parte di Roma dell’amore non stanco di Roma, segno che la bella compagnia è salda nella fede e nella speranza apostolica. E l’ombra dei santi è là;-vi è san Benedetto che ci parla in voce di vescovo e di pre­te, e ci racconta delle lunghe età attraverso cui egli ha pregato, studiato e lavorato; vi è anche la bianca lana di san Domenico, il cui candore nes­suna accusa può sminuire, nessuna macchia può offuscare;-e se non vi è san Bernardo, è soltanto perché la sua assenza possa farlo ricordare di più. Lui pure, il principesco patriarca sant’Ignazio, il san Giorgio del mondo moderno, con la sua cavalleresca lancia che trapassa il nemico che si contorce, lui pure, versa le sue benedizioni su quel corteo. E al­tri ancora suoi pari o suoi minori nel tempo, i cui quadri sono sopra i nostri altari, o lo saranno presto-prova più certa che il braccio del Si­gnore non si è accorciato, né è venuta meno la sua misericordia-ancor loro guardano dai loro troni giù tra la calca. E. così la solenne compagnia si avanza verso il luogo santo; dove con rito augusto e con terribile sa­crificio inaugura il grande fatto che ivi la conduce ». Qual è questo fat­to? è il primo sinodo di una nuova gerarchia; è la risurrezione della Chiesa.

O miei fratelli, o padri miei, se quel vescovo venerando avesse par­lato così allora, chi udendolo non avrebbe detto che parlava di cose che non potevano essere? Come! quei pochi, spersi adoratori, i Cattolici Ro­mani, avrebbero formato una Chiesa! Il passato riverrà? Il sepolcro si aprirà? I Sassoni vivranno ancora a Dio? I pastori guardando di notte il loro povero gregge, saranno visitati da una moltitudine dell’esercito celeste, e sentiranno come il loro Signore è appena nato nella loro città? Sì, poiché la grazia può dove non può la natura. Il mondo invecchia, ma la Chiesa è sempre giovane. Essa può, in qualsiasi tempo, se il suo Si­gnore lo vuole, « impossessarsi dei gentili e occupare le desolate città ». « Sorgi Gerusalemme, poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signo­re si è levata su di te. Osserva, l’oscurità coprirà la terra, e una nebbia coprirà il tuo popolo, ma il Signore si alzerà su di te, e su di te si vedrà la Sua gloria. Alza gli occhi e guardati intorno; tutti costoro si sono rac­colti insieme e vengono a te; i tuoi figli verranno di lontano, e le tue figlie si alzeranno al tuo fianco ». « Sorgi, affrettati, amor mio, mia co­lomba, mia unica bella, e vieni. I fiori sono apparsi nella nostra terra… l’albero di fico ha messo i suoi verdi fichi; le viti in fiore conservano il loro dolce odore. Sorgi, amor mio, mia bella, e vieni ». È il tempo per la tua visitazione. Sorgi, Maria, avanza con la tua forza in quella regio­ne del Nord, che un tempo era tua, e prendi possesso di una terra che non ti conosce. Sorgi, Madre di Dio, e con la voce tua penetrante, parla a quelle che sono in travaglio per avere un figlio, e soffrono, finché il figlio della grazia non sussulti entro di loro. Risplendi su di noi, cara Signora, con il tuo aspetto luminoso, simile al sole nella sua forza, o stella mattutina, o foriera di pace, finché il nostro anno è un maggio per­petuo. Dai tuoi dolci occhi, dal tuo puro sorriso, dalla tua fronte mae­stosa, fa piovere diecimila influssi, non per sconcertare o sopraffare ma per persuadere e trionfare sopra i tuoi nemici. O Maria, mia speranza, o Madre intemerata, adempiei la promessa di questa primavera. Un secon­do tempio sorge sulle rovine dell’antico. Canterbury è andata per la sua strada, e York è passata, e Durham è andata, e Winchester è andata. Fu doloroso dividersene. Noi ci attaccammo alla visione della passata grandezza, e non potevamo credere che potesse finire nel nulla; ma la Chiesa in Inghilterra morì e ora la Chiesa vive di nuovo. Westminster e Nottingham, Beverley ed Hexham, Northampton e Shrewsbury, se il mondo dura, saran nomi altrettanto musicali all’udito ed eccitanti al cuo­re quanto le glorie che abbiamo perdute; e santi sorgeranno da esse, se Dio vorrà, e ancora una volta dottori daran la legge a Israele, e predica­tori chiameranno a penitenza e a giustizia come alle origini.

Sì, padri e fratelli miei, e se questo sarà il santo volere di Dio, non soltanto santi, non soltanto dottori, non soltanto predicatori saran nostri -ma anche martiri consacreranno il suolo a Dio. Noi non sappiamo cosa ci sta davanti, prima di vincere noi stessi; noi siamo impegnati in un’ope­ra grande, in una opera lieta, ma la furia dei suoi nemici va a seconda della Grazia di Dio. Ci hanno accolto con la gentilezza con cui il leone saluta la sua preda. Forse col tempo si familiarizzeranno con la nostra presenza, forse potranno irritarsi maggiormente. Ristabilire la Chiesa in Inghilterra è un atto troppo grande perché lo si possa compiere da un canto. Avevamo ragione di aspettarci che una grazia simile non ci sareb­be stata data senza una croce. Non è costume di Dio far discendere delle grandi benedizioni senza prima il sacrificio di grandi sofferenze. Se la verità dovrà espandersi in qualsiasi direzione tra questo popolo, come possiamo sognare, come possiamo sperare che prove e angustie non ac­compagnino il suo cammino? E abbiamo già, se è permesso dirlo senza presunzione, per cominciare con essi la nostra opera, una larga provvi­sta di meriti. Il nostro equipaggiamento per aprire la lotta non è leg­gero. Possiamo religiosamente supporre che il sangue dei nostri martiri da tre secoli in qua, non debba ricevere mai la sua ricompensa? Quei preti, secolari e regolari, soffrirono senza scopo? o non piuttosto per uno scopo che ancora non si è raggiunto? La lunga prigionia, la fetida prigione sotterranea, l’affaticante incertezza, il tirannico processo, la bar­bara sentenza, la mannaia, la caldaia, le innumerevoli torture di quelle sante vittime, non dovranno, o Dio mio, aver ricompensa? I tuoi mar­tiri debbono gridare da sotto il Tuo altare per aver vendetta di questo popolo colpevole, e debbono gridare invano? Dovranno aver perduta la vita e non ottenerne una migliore per i figli di coloro che li persegui­tarono? È questo tuo modo di fare, o Dio mio, giusto o vero? Si accor­da con la Tua promessa, o Re dei Santi, se posso osare di parlarti di giustizia? Tu stesso non pregasti per i Tuoi nemici sulla croce e li con­vertisti? Il Tuo primo martire non guadagnò il Tuo grande Apostolo, allora un persecutore, con la sua buona preghiera? E in quel giorno di prova e di desolazione per l’Inghilterra, quando i cuori furono trafitti da parte a parte dal dolore di Maria, durante la crocifissione del tuo corpo mistico, ogni lagrima versata e ogni goccia di sangue sparso non era il seme di un futuro raccolto, poiché coloro che seminano nel dolo­re raccolgono nella gioia4?

E come quel patire dei martiri non ancora è ricompensato, così, for­se, non è ancora consumato. Qualcosa, per quel che noi sappiamo, resta da sopportare, perché sia compiuto il sacrificio necessario. Possa Dio preservarcene, per il bene della nostra povera nazione! Eppure, potreb­be sorprenderci, padri e fratelli miei, se l’inverno anche ora non fosse proprio passato? Abbiamo diritto di considerare strano se, in questa ter­ra inglese, il tempo di primavera della Chiesa si mutasse in una prima­vera inglese, un tempo incerto e ansioso di speranza e di timore, di gioia e di sofferenza-di rilucenti promesse e germoglianti speranze, e ciono­nostante di acute raffiche e freddi acquazzoni e improvvise tempeste?

Io so soltanto una cosa-che a seconda del nostro bisogno, così sarà la nostra forza. Di una cosa sono sicuro, che quanto più il nemico infuria contro di noi, tanto più i Santi in Paradiso peroreranno per noi; quanto più paurose saranno le nostre prove da parte del mondo, tanto più ci assisterà la nostra Madre Maria, i nostri buoni Patroni e gli An­geli nostri Custodi; quanto più cattivi saranno gli artifici degli uomini contro di noi, tanto più alto sarà il grido di supplica che salirà a Dio per noi dal profondo dell’intera Chiesa. Non saremo lasciati orfani; avremo dentro di noi la forza del Paraclito, promesso alla Chiesa e a ogni suo membro. Fratelli miei, padri miei, fratelli miei nel sacerdozio, parlo dal profondo del mio cuore quando dichiaro la mia convinzione che, tra i qui presenti, non ce n’è uno, se Dio avesse così deciso, che volentieri non diventerebbe un martire in nome Suo. Non dico che voi lo deside­rereste; non dico che il volere naturale non pregherebbe perché quel ca­lice passasse via5, non parlo di quel che voi potete fare con le sole vo­stre forze; ma con la forza di Dio, con la grazia dello Spirito, con la corazza della giustizia, per le consolazioni e la pace della Chiesa, per la benedizione degli Apostoli Pietro e Paolo, e nel nome di Cristo, voi fareste quello che non può fare la natura. Per intercessione dei Santi lassù, per la penitenza e le buone opere e le preghiere del popolo di Dio in terra, voi sarete portati su di forza, come sulle onde di una profon­dità potente, e trascinati fuori di voi stessi dalla pienezza della grazia, lo voglia o no la natura. Non dico violentemente o in una battaglia scomposta, ma placidamente, graziosamente, soavemente, gioiosamente. Voi salirete a cavallo e cavalcherete verso la battaglia come nell’impeto di ali di angeli, come fecero i vostri padri prima di voi: e ottennero il premio. Voi che giornalmente offrite l’Agnello Immacolato di Dio, voi che tenete nelle vostre mani il Verbo Incarnato sotto i segni visibili da Lui ordinati; voi che ogni volta da capo vuotate bevendo il calice della Grande Vittima: che cosa dovrà farvi paura? Che cosa vi deve allarma­re? che cosa sedurre? chi vi deve fermare, sia che dobbiate soffrire o agire, sia che dobbiate gettare le fondamenta della Chiesa in lagrime o coronare l’opera nel giubilo?

Padri miei, fratelli miei, ancora una parola. Potrà sembrare che io esca dal seminato nel rivolgermi a voi in questo modo; ma ho una certa scusante per il mio insistere fino all’estenuazione. Quando il Collegio Inglese in Roma fu costruito dalla sollecitudine di un grande pontefice all’epoca in cui cominciarono i dolori dell’Inghilterra, e i missionari vi furono addestrati a saper confessare e soffrire il martirio in patria, chi fu colui che salutò i bei giovani Sassoni mentre gli passavano accanto nelle strade della grande città, con il saluto: Salvete flores martyrum? E quando giunse l’ora per ciascuno di essi di lasciare uno alla volta quel­la tranquilla dimora e affrontare il conflitto, a chi ricorsero prima di la­sciare Roma, per ricevere una benedizione atta a fortificarli nella loro opera? Volevano la benedizione di un santo; e andarono a chiederla a un placido vecchio che mai non aveva visto il sangue, fuorché nella pe­nitenza; che invero, aveva desiderato ardentemente di morire per Cristo, allorché il grande san Francesco [Saverio] aprì la strada al lontano Oriente, ma che era stato assegnato come sentinella nella città santa, e non aveva fatto che andar su e giù per cinquant’anni sempre in ronda, mentre i suoi fratelli erano nella battaglia. Oh come il fuoco di quel cuore, troppo grande per il suo fragile involucro, lo torturava perché lui era trattenuto a casa mentre tutta la Chiesa si trovava in guerra! e per­ciò vennero a lui quei forestieri dai chiari capelli, prima di mettersi in viaggio verso il teatro della loro passione; affinché tutto lo zelo e l’amo­re chiuso in quel petto bruciante potesse trovare uno sbocco, e scorrere,, da lui che era tenuto in casa, su coloro che si trovavano faccia a faccia. con il nemico. Perciò a uno a uno, ciascuno a suo tempo, questi giovani soldati andarono dal vecchio; e, uno dopo l’altro, perseverarono e gua­dagnarono la corona e la palma-tutti, tranne uno il quale non andò, e non sarebbe andato, a ricevere la salutare benedizione.

Padri miei, fratelli miei, quel vecchio era il mio san Filippo. Soppor­tatemi per amor suo. Se ho parlato troppo seriamente, il suo dolce sorriso mitighi questa mia serietà. Come egli fu con voi tre secoli fa in Roma, quando cadde il nostro tempio, così di certo, ora che esso sta sor­gendo, indizio gradito è sapere che egli si sarebbe messo fianco in viag­gio per venire da voi; e che, quasi ricordando la sua intercessione per voi in casa, e riconoscendo le relazioni allora formate con voi, egli ora desidera avere un nome tra voi, essere amato da voi e, chissà, rendervi qualche servizio, qua nella vostra stessa patria.

Sermone X, di Sermons Preached on Various Occasions, Christian Classics, London 1968 (I ed. 1857).

in italiano: Newman, Sermone Cattolici, Jaca Book, Milano 1983, pp. 275-288.