John Henry Newman – Compagno nel cammino della Fede

postato in: Temi diversi | 0

La natura della fede consiste nel volgere lo sguardo al di sopra di noi stessi; immaginate un credente che si chiude nel proprio pensiero confidando nell’azione del proprio spirito e pensando al suo Redentore come ad una sua propria immagine invece di morire a se stesso e di vivere di Colui che parla attraverso i Vangeli» (PPS II 161f)[1] La fede è quella virtù cristiana che ci eleva al di sopra del nostro proprio io e ci trasferisce in un certo senso in un mondo nuovo. «La fede è … il mezzo destinato ad unire il cielo alla terra» (US 177)[2]. Colui che crede può lasciare i propri desideri e sentimenti e le proprie opinioni dietro di sé. E’ pronto a rispondere alla chiamata del Signore che lo vuol introdurre nel mondo invisibile ma reale di Dio. La fede possiede una forza trasformatrice. Colui che prima sente solo sé stesso, diventa uno che ascolta il Signore. L’uomo che all’inizio va dove vuole, si trasforma in una persona che desidera di essere guidata da Dio. «Questo è il vero spirito di fede: servire Dio aspettando la Sua guida e seguendola senza cercare di anticiparlo» (PPS III 8). La fede consiste in un particolare rapporto personale dell’uomo con Dio. Questo atto di fiducia nel quale l’uomo si dona a Dio, non è senza contenuto. Infatti, è colmo di verità rivelate da Dio. Il credente aderisce con tutta la forza della sua esistenza ad «un deposito stabilito» che gli «è stato affidato nel battesimo con un simbolo che si chiama Credo» (PPS II 256). La fede è l’impegno e l’adesione di tutta la persona agli eventi salvifici il cui contenuto concentrato è stato espresso dalla Chiesa in formulazioni dogmatiche e che incide profondamente sulla nostra vita. «Quando gli uomini riconoscono una verità, questa diventa in loro un principio efficace e li conduce a molte conseguenze sia per la loro convinzione sia per il loro comportamento» (PPS VI 263). Nella fede l’uomo risponde alla rivelazione trascendente in forza della grazia e in piena libertà. Con tale virtù egli obbedisce alla Parola divina con l’intelletto e con la volontà, con la parola e con l’azione. Secondo Newman, la fede è profondamente legata all’obbedienza; infatti, in una delle sue omelie afferma: «Non esiste un solo atto di fede senza che avesse in sé anche l’essenza dell’obbedienza … nella misura in cui l’uomo crede, egli obbedisce; ambedue nascono insieme, crescono insieme e durano tutta la vita» (PPS III 85f). E in altra sede Newman esorta i suoi ascoltatori: «La rivelazione ci sottopone ad una prova … la prova dell’obbedienza per l’obbedienza, ossia per la fede» (US 172).

Come troviamo la fede?

L’uomo non può produrre la fede che è un dono della grazia divina, un «principio soprannaturale» (US 193). Per far crescere e maturare la fede occorrono, oltre alla grazia, due premesse: la testimonianza all’esterno e la disposizione interiore che rendono possibile la docile accettazione della rivelazione testimoniata. Newman ritiene molto importante le condizioni interiori a riguardo della fede. Secondo lui queste condizioni non sono tanto di natura intellettuale ma morale e si creano nell’animo dell’uomo quando egli è disposto ad ascoltare la voce della sua coscienza. La coscienza dà all’uomo gli ordini ai quali egli deve obbedire. «Per la natura in sé, è proprio la sua esistenza che conduce il nostro spirito verso un essere che sta al di fuori di noi; infatti, da dove dovrebbe venire? E verso un essere che sta sopra di noi; infatti, da dove viene la sua strana e fastidiosa assolutezza? Senza voler approfondire la questione di che cosa intende dire e se i suoi ordini saranno sempre chiari e logici come dovrebbero essere, io affermo che la sua esistenza stessa ci spinge fuori di noi e al di sopra di noi cosicché ci incamminiamo per cercare in alto e in profondità Colui al quale appartiene questa voce» (SVO 65). Newman sa che l’uomo, quando vuole obbedire alla sua coscienza, viene travolto da una forte inquietitudine interiore perché riconosce di non essere perfetto e di sbagliare continuamente. La propria coscienza lo mette di fronte alla sua colpa senza poterla cancellare. «Infatti, per tutti questi motivi – perché è consapevole della sua ignoranza, consapevole della propria colpa e del pericolo – l’uomo religioso che non è in possesso della rivelazione benedetta, andrà in cerca della rivelazione» (SVO 67f). In questo senso il predicatore di Oxford è convinto che l’obbedienza alla voce della coscienza costituisce la via che conduce ad una profonda fede nella rivelazione. Egli esorta i suoi ascoltatori: «Vorrei affermare che quando obbediremo alla voce divina nel nostro cuore non sentiremo nessun dubbio veramente preoccupante circa la verità della scrittura» (PPS I 201). «Seguite il vostro proprio senso di giustizia e troverete tramite questa obbedienza verso il vostro Creatore secondo l’ordine della coscienza naturale la conoscenza della verità e della potenza del Redentore che vi ha rivelato un messaggio dall’alto» (PPS VIII 120). La coscienza come Newman l’intende non è solamente un senso morale né la voce del proprio io, né un giudizio determinato da desideri soggettivi. La coscienza non ha niente a che fare con l’opinione e neppure con l’arbitrio ma significa «l’obbedienza coscienziosa verso quella nostra voce interiore che vuole essere la voce di Dio» (Diff II 255)[3]. L’obbedienza fedele verso questa voce ha condotto Newman alla comunità della Chiesa cattolica. Circa trent’anni dopo questo suo passo egli scrisse: «Dal 1845, l’anno della mia conversione, non ho messo in dubbio neanche per un attimo il mio dovere di aderire – come feci allora – alla Chiesa cattolica della quale sentivo nella mia coscienza che era divina» (Diff II 349). Newman, per esperienza personale, è convinto che Dio stesso parla all’uomo nella sua coscienza pur in maniera velata. Più l’uomo ascolta sinceramente e docilmente nel proprio cuore questa debole voce e ad essa obbedisce, più essa diventa forte e chiara. «C’è una voce in noi che ci assicura che esiste qualche cosa superiore alla terra. Non la possiamo analizzare né determinare né mettere sotto il microscopio e neanche quello che ci suggerisce. Non è configurato non ha forma fisica … L’anelito della nostra natura trova la sua fine, il suo sostegno e il suo punto fermo ascoltando il messaggio dell’esistenza di un creatore onnipotente e buono. Esso ci induce a una degna fede in ciò che non possiamo vedere» (PPS VI 340f).

Qual è il frutto della fede?

Il dono della fede è stato dato all’uomo non soltanto per illuminare la sua mente e per introdurlo nel mondo divino, ma per aprire il suo cuore al dono della redenzione. La rivelazione avvenuta per la nostra salvezza e alla quale ci rivolgiamo nella fede, non soltanto vuol rendersi consapevoli, ma vuole trasformaci interiormente. La verità del Vangelo ci è stata data «come creature, come peccatori, come uomini, come essere immortali e non solo come pensatori, oratori o ricercatori filosofici. Essa ci insegna che cosa siamo, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare e come lo dobbiamo fare» (PPS I 203f). Sarebbe erroneo credere che la fede sia soltanto un sentimento piacevole oppure l’affascinante deduzione del pensiero. Essa vuol improntare la nostra azione e deve esprimersi in atti concreti portando frutti abbondanti. «Cerchiamo di compiere il nostro dovere come si presenta, questo è il segreto della vera fede e della pace» (PPS II 160f). Come intenditore dell’animo umano Newman parla di una grande difficoltà che ognuno di noi deve superare: «Tra l’agire e l’intenzione di agire c’è un abisso molto più profondo di quello che si possa immaginare» (PPS I 117). Il banco di prova della fede non consiste, quindi, in una sensazione piacevole oppure in un bel pensiero, bensì nell’atto concreto con cui l’uomo risponde alle parole e alle opere divine. Più la fede si esprime in atti concreti più lo spirito dell’uomo si rafforza. La fede permette l’accesso alla potenza e alla gloria di Dio, apre il cuore ai doni divini, dona la forza di compiere delle cose che normalmente superano le nostre forze. La vera fede «non desidera conforti» (PPS V 2), ma è «sempre ansiosa e sempre all’erta con occhi svegli ed orecchie aperte nell’attesa di qualche segnale della volontà di Dio» (PPS III 109); essa è allo stesso tempo «senza pretese, semplice, grata e obbediente» (PPS I 211). Colui che lascia se stesso elevandosi a Dio nella fede, va anche incontro al prossimo. Perciò «la caratteristica decisiva della fede è di porre più attenzione agli altri che a se stesso» (PPS III 7). La vera fede è sostenuta dalla carità e si apre alla carità. Così la fede diventa una forza che conduce l’uomo sulla via della santità. «Dalla fede nasce tutta la perfezione: Chi inizia con la fede, finirà con la santità più pura e perfetta … Chi crede, non possiede ancora la perfetta giustizia e integrità, ma ne possiede i primi frutti» (PPS V 159). Per Newman la santità non è niente di straordinario, non è la capacità di fare miracoli o di profetizzare; non consiste in doti o poteri speciali. La santità è la vocazione e la meta di tutti i credenti. La santità è la fede perfetta diventata speranza ferma e amore ardente. La santità è fede vissuta in presenza di Dio. Per ottenere tale fede, il Card. Newman pregava con queste parole: «O mio Dio, Tu sei pieno di misericordia. Vivere nella fede è per me necessario a causa della mia attuale condizione esistenziale e dei miei peccati. Tu hai dato la Tua benedizione. Tu stesso hai detto che credendo in Te qui sarei più felice anziché vedendo Te. Concedimi di partecipare a questa felicità, concedila in pienezza! Concedimi la grazia di credere come se Ti vedessi! Concedemi di averTi sempre davanti agli occhi, come se Tu fossi presente fisicamente e sensibilmente! Conservami in unità con Te, mio Dio nascosto, ma vivente! Tu sei nella profondità del mio cuore. Tu sei la vita della mia vita. Ogni respiro della mia bocca, ogni pensiero della mia mente, ogni buon sentimento del mio cuore è espressione della presenza del mio Dio nascosto nella mia anima. Per natura e grazia Tu sei in me. Nel mondo dei sensi Ti intravedo vagamente, ma sento la Tua voce nella profondità della mia coscienza. Mi rivolgo a Te e Ti supplico: Maestro mio, rimani con me; e se fossi tentato di abbandonare Te, mio Dio, Tu non abbandonare me!»[4]

.


[1] Parochial and Plain Sermons (=PPS I – VIII), Sermons Preached on Various Occasion (SVO), Christian Classics, Westminster 1966-1968.
[2] University Sermons (=US) Rivingtons, London 1890.
[3] Diff II = Difficulties of Anglicans II, Christian Classics, Westminster 1969.
[4]< Meditations and Devotions, Christian Classics, Westminster 1975, 362.